ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 30 dicembre 2017

La penitenza non é gaya..?

IL VALORE DELLA PENITENZA


 Ritrovare il senso e il valore della penitenza. Quando è che la Chiesa ha imboccato la china dell’autodistruzione e non in senso storico? senz'altro quando ha smarrito il senso e il valore della penitenza; e la pratica relativa 
di Francesco Lamendola  


Se dovessimo rispondere alla domanda: quando la Chiesa ha imboccato, in maniera decisiva e quasi ineluttabile, la china dell’autodistruzione; quando ha rotto i freni e permesso al veleno modernista d’inquinarla da cima a fondo? – non quando in senso storico, ne abbiamo parlato già parecchie volte, ma quando in senso morale - ebbene, senza esitare risponderemmo: quando ha smarrito il senso e il valore della penitenza, e la pratica relativa. Perché la fede va in crisi quando si tralascia la penitenza, quando se ne smarrisce l’idea, e, quindi, se ne dimentica l’insostituibile necessità; perché la crisi di fede è una crisi che nasce sempre da un peccato di superbia, dal credersi abbastanza forti, abbastanza adulti, abbastanza maturi per far da soli una buona parte del lavoro, lasciando a Dio solo il contorno. Chi comincia ad agire così, pur senza formulare un pensiero preciso, è già in procinto di perdere la fede; e il segno più certo dello smarrimento è il fatto che costui non dedica più tempo né attenzione alla penitenza.
Dobbiamo tener sempre presente la similitudine della vite e dei tralci, che è l’ABC della fede cattolica: Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia e ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate moto frutto e diventiate miei discepoli (Gv 15, 1-8). SENZA DI ME NON POTETE FAR NULLA, dice il Signore; eppure, quando il sottile veleno dell’orgoglio entra nella vita dell’anima – e vi entra per un calo della penitenza – ecco che gli uomini cominciano a credere di poter fare da soli chissà che cosa, e si scordano il severo ammonimento di Gesù: chi non rimane in me e io in lui, viene gettato via, come un inutile sarmento, poi va a finire nel fuoco, a bruciare.
Ma che cos’è, dunque, la penitenza? La penitenza, prima di essere una pratica di preghiera, di rinuncia e di mortificazione, è un atteggiamento interiore: è l’atteggiamento dell’anima che decide di volgere i suoi passi verso Dio, a partire dal pieno riconoscimento della propria condizione di peccato, della propria insufficienza, della propria fragilità, e della necessità assoluta di affidarsi a Lui ed a Lui solo. In altre parole, è l’atteggiamento di chi comprende di essere utile a qualcosa solo se rimane unito a Gesù Cristo, così come il tralcio rimane unito alla vite: perché solo unito a Lui può dare molto frutto, per se stesso e per gli altri; mentre, se rimane separato da Lui, non serve a nulla, la sua vita diventa inutile e la sua mente viene sopraffatta da pensieri e disposizioni negativi, distruttivi, scaturenti dal disordine morale. Un’anima moralmente disordinata è una mina vagante e rappresenta un pericolo: prima di tutto per se stessa, poi anche per tutti gli altri. Si pensi al danno colossale che può provocare un’anima in preda alle passioni disordinate, se riesce ad occupare una posizione di grande visibilità sociale, mediante la quale esercitare un’influenza sugli altri: e questo vale non solo per i politici e i pubblici amministratori, ma anche per gli intellettuali, gli artisti, i pensatori, eccetera. Solo quando rimane strettamente unita a Dio, l’anima è in grado d’inserirsi nel circuito virtuoso del Bene, che parte da Dio e che a Dio vuol fare ritorno; solo allora essa può mettere veramente a frutto i suoi talenti – l’intelligenza, la salute, la bellezza -, perché, in caso contrario, quegli stessi talenti diventano la sua maledizione, e invece di tirarla verso l’alto, l’attraggono verso il basso, e coinvolgono anche altri nella discesa verso la palude. Ecco perché la visione dei tre pastorelli di Fatima è stata introdotta da un Angelo che, impugnando una spada di fuoco, esclama: Penitenza, penitenza, penitenza!; dopo di che, sono incominciate le apparizioni della Madonna.
Ma Bergoglio, nella sua vista a Fatima per celebrare il centesimo anniversario delle apparizioni mariane del 1917, non solo non ha fatto recitare il Rosario, sostituito da un concerto musicale: non ha nemmeno parlato della penitenza e della sua assoluta necessità. Parlare della Madonna, proprio a Fatima, senza parlare della penitenza, è semplicemente assurdo: assurdo e scandaloso. Ma c’è una buona ragione, per ciò. La neochiesa non parla più della penitenza; pare che la fede sia stata interamente sommersa e annacquata in un oceano di misericordia a buon mercato e di buonismo zuccheroso. Essa ha deciso di non parlare della penitenza, perché la penitenza è un concetto chiave, una pratica essenziale: e una chiesa che non fa penitenza, che non predica la penitenza, che parla solo d’includere i diversi e di accogliere gli stranieri, è una chiesa post-cristiana, sostanzialmente atea e materialista; una chiesa fatta dall’uomo per gli uomini, non più la Chiesa di Dio, fondata da Gesù Cristo e avente per scopo quello di portare a Lui tutte le anime. Ma una chiesa così non serve a nessuno: né a se stessa, né al prossimo: è simile al ramo secco che si è separato dalla vite, e che il vignaiolo stacca e poi getta nel fuoco. Il che è precisamente quello che vogliono i neovescovi massoni ed i neopreti modernisti: vogliono che la chiesa diventi un ramo secco, che si stacchi da Gesù Cristo e che finisce nel fuoco, a bruciare. Perché essi non amano Gesù Cristo: se lo amassero, riconoscerebbero che Lui è il Signore e che ogni cosa buona viene da Lui; ma essi amano solo se stessi, si credono grandi, furbi e intelligenti, si sentono spavaldi e senza paura, vogliono far vedere che sanno cavarsela benissimo anche da soli: etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse. Logico: perché non ci credono più.
E non solo la neochiesa ha smesso completamente di parlare della penitenza, della sua utilità e della sua necessità; essa sta facendo di peggio: sta dando l’esempio pratico del suo contrario. Sta facendo di tutto affinché i cattolici si dimentichino che la penitenza è alla base di tutta la vita cristiana, a cominciare dal Sacrificio della Messa, che è la forma più sublime di penitenza, e che essa vuol trasformare un una sorta di assemblea laica, tanto vociante quanto superficiale. La santa Messa, come una volta sapeva qualsiasi seminarista e qualsiasi studente di teologia alle primissime armi, ma oggi forse non lo sanno neppure dei sacerdote di quaranta o cinquant’anni, specie se imbevuti di spirito progressista e modernista, ha quattro fini: adorazione, cioè rendere il debito culto a Dio; ringraziamento, cioè donare a Dio il dono più perfetto, il suo stesso Figlio; propiziazione, o richiesta di perdono; impetrazione, o domanda di grazia. Come si vede, tutti e quattro hanno a che fare con la penitenza, e specialmente l’ultimo: il fedele sa, e riconosce, di avere ben pochi meriti di fronte al Creatore: pertanto unisce le sue preghiere a quelle di Gesù, con il che egli apre la strada alla grazia divina che scenderà su di lui con abbondanza, secondo la Parola stessa di Cristo: Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto. D’altra parte, la Lettera di Giacomo ci ammonisce che non basta chiedere, ma bisogna chiedere nella maniera giusta: Chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri (4, 3). E dopo aver ricordato che “chiedere male” significa non solo chiedere per dei fini cattivi, ma anche chiedere con superbia, lo stesso Giacomo ricorda l’importanza dell’umiltà quando ci si rivolge a Dio: Per questo dice: “Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia”. Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi. Avvicinatevi a Dio, ed egli si avvicinerà a voi. Purificate le vostre mani, o peccatori, e santificate i vostri cuori, o irresoluti (id, 6-8).
Ecco, dunque, perché la neochiesa sta facendo tutto quel che le riesce di fare per togliere dalla santa Messa, oltre che ogni altro aspetto della vita cristiana, la dimensione dell’umiltà, e per introdurvi, senza averne l’aria, la superbia, spacciandola per una fede “più adulta”, “più matura”, “più concreta”, “più credibile”, eccetera, eccetera: perché fino a quando l’uomo si mantiene in un atteggiamento di superbia, Dio non si concede a lui, e la partecipazione alla santa Messa diventa sostanzialmente inutile. Non è solo questione di liturgia, ma è, ovviamente, anche questione di liturgia. Ricevere la santa Eucarestia stando in ginocchio, per esempio, è il segno esteriore dell’atteggiamento interiore di umiltà del fedele davanti a Dio. Ricevere l’Ostia consacrata dalle mani del sacerdote, direttamente in bocca, è un altro segno esteriore: nessuno ha le mani abbastanza pure da poter prendere con esse il Corpo di Cristo; solo il sacerdote lo può, non in quanto uomo – perché, come uomo, egli è un misero peccatore come tutti - ma perché, in quel preciso momento, egli è molto più di un uomo: è un ministro infallibile, è addirittura un alter Christus, un altro Cristo, che mostra alle pecorelle la via del Cielo. Più in generale, l’inginocchiarsi e il chinare il capo è un segno esteriore di umiltà davanti a Dio: quante volte facciamo questo gesto, spontaneamente, con naturale riverenza? Quante volte lo vediamo fare dal neoclero? Quante volte abbiamo visto il (falso) papa Bergoglio inginocchiarsi, almeno davanti al tabernacolo del Santissimo? Lo vediamo sempre ben ritto in piedi, oppure seduto; e il suo sguardo non è mai umile, ma carico di superbia, di arroganza, o, qualche volta, quando egli s’immerge nei suoi amati bagni di folla, e vuol piacere al pubblico, è aperto a un sorriso mondano, ma un sorriso che resta “duro”, perché le sue labbra si contraggono in una specie di smorfia, ma gli occhi no, quelli non sorridono, perché per sorridere bisogna essere capaci di umiltà e di benevolenza, e troppe volte costui ha mostrato – a cominciare dall’indegno trattamento riservato ai Francescani e alle Francescane dell’Immacolata – tutta la spietata durezza del suo cuore e la sua congenita mancanza di carità.

Ritrovare il senso e il valore della penitenza

di Francesco Lamendola
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