ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 1 luglio 2017

E’ la neo Chiesa di rito argentino

Don Bosco: santo, educatore, prete di strada


Sono tante le ferite all’anima dei cattolici fedeli. Dall’abdicazione del grande papa Benedetto XVI alla successiva intronizzazione di Francesco, poi, sembra che le piaghe si vadano allargando e se ne aprano di nuove. Dalla drammatica vicenda degli abusi sessuali sui minori a casi sempre più numerosi di condotte private ed intime di vita disordinata o addirittura scandalosa, all’affarismo di alcuni sino a vere e proprie enormità dottrinali, il quadro è disarmante. Il “papa nero” Sosa Abascal, numero uno dei gesuiti, ha messo in dubbio la verità dei Vangeli (“non c’erano telecamere al tempo di Gesù”) e negato rotondamente l’esistenza del Maligno. Gli esempi sono troppi e così diffusi da far temere che avesse ragione Paolo VI allorché denunciava, insieme ad un “pensiero non cattolico” diffuso nella Chiesa, il fumo di Satana penetrato nel corpo vivo dell’istituzione. La memoria va ad un grande filosofo e sacerdote dell’Ottocento, Antonio Rosmini, ed al suo libretto, che gli costò in vita le attenzioni del Sant’Uffizio, intitolato “Le cinque piaghe della Santa Chiesa.”
Serve aria fresca, una prassi ed un pensiero cattolico che, fedele al “depositum fidei”, torni a parlare di Dio ad un mondo diventato infedele, o, peggio, indifferente. Un grande esempio ci viene dalla figura di San Giovanni Bosco, anzi, semplicemente, Don Bosco, il grande prete astigiano dell’Ottocento che unisce tre straordinarie caratteristiche, o carismi, come si diceva. Innanzitutto, Don Bosco è un santo, e non solo perché tale lo ha proclamato la Chiesa sin dal 1934. Ma fu anche un eccezionale educatore e, come oggi usa dire, un prete di strada. Torino ed il Piemonte conobbero, in quel periodo, una preziosa fioritura di figure eccezionali. Oggi vengono chiamati i “santi sociali”, Giuseppe Cafasso, amico e collaboratore di Don Bosco, l’uomo che seguiva i condannati a morte sin sul patibolo, Giuseppe Cottolengo, il vero paladino degli ultimi, dei più sfortunati e disgraziati tra gli esseri umani, Francesco Faà di Bruno, scienziato ed infaticabile animatore della stampa, Giulia di Barolo, nobile di origine francese. L’ultimo grande, già in pieno Novecento, fu Don Orione.


La città sabauda, al tempo di Don Bosco, viveva un impetuoso sviluppo urbanistico e l’avvio della prima rivoluzione industriale. Lo sfruttamento più bieco era quotidiano e drammatico. Prime vittime, bambini e ragazzi provenienti dalle campagne, figli di contadini che le famiglie non riuscivano a sfamare. Don Bosco era uno di loro, nato in una cascina di Castelnuovo d’Asti, orfano e povero. Al Valdocco prima, in altre zone della città del Piemonte e, via via, nel mondo intero, costruì una rete di istituti in cui ai giovani, sottratti alla strada e ad abusi di ogni tipo, insegnava a leggere e scrivere, poi a padroneggiare un mestiere, ma sempre e prima di tutto, a vivere nella fede e nella preghiera. Nell’apostolato del grande santo, che bussò ad ogni porta dei potenti della grande città, anche a quella del Re, con cui ebbe talora rapporti conflittuali, tutto ruotava attorno alla fede in Dio ed alla sua provvidenza. La sua opera è un monumento alle tre virtù teologali: fede, speranza e carità. I giovani di Don Bosco, che volle intitolare la sua creatura a San Francesco di Sales, sacerdote savoiardo che, da vescovo di Ginevra, convertì molti calvinisti, apprendevano un ordine morale, erano iniziati alla fede, e diventavano, attraverso il lavoro, cittadini esemplari e consapevoli.
Oggi sono di moda altri preti di strada: aborrono l’abito talare, usano il linguaggio e talora il turpiloquio degli ambienti che frequentano, intervengono su mille questioni, ma tacciono su Dio. Paladini dell’antimafia, avversari dello spaccio e dell’uso di droga, “no global” ed agitatori politici, indubbiamente fanno del bene. Ma quel bene è fatto per amore di Dio, ovvero in nome della Carità, o non sono che ammirevoli operatori sociali disinteressati alle anime, estranei alla dimensione spirituale? Sono, come Don Bosco, educatori e operai nella vigna del Signore, o agiscono per scopi magari nobili e condivisibili, ma esclusivamente mondani? Recentemente, Jorge Mario Bergoglio ha voluto esaltare le figure di due sacerdoti italiani del Novecento molto controversi, Don Lorenzo Milani e Don Primo Mazzolari.
Pur nel rispetto delle loro figure, si resta davvero perplessi dinanzi al priore di Barbiana, tanto vicino al rancore classista (Lettera ad una professoressa) e divulgatore di una concezione del sapere che ha contribuito alla decostruzione della scuola italiana, teorico dell’obiezione di coscienza e criptocomunista. Don Mazzolari, a sua volta, fu animato da grande fede, ma fu anche uomo di parte, partigiano durante la guerra civile, un altro dei tanti affascinati dall’impossibile incontro con il marxismo ateo e materialista in nome di un’equivoca comune vicinanza ai poveri.
E’ la neo Chiesa di rito argentino. Per questo, a Genova è nato il Centro Studi Sociali San Giovanni Bosco, ad iniziativa di un piccolo nucleo di credenti. Lontani dalle sirene di un cattolicesimo ripiegato esclusivamente sull’attivismo sociale, ma anche alieni da una fede disincarnata dalla realtà o chiusa unicamente nella devozione, i promotori hanno deciso di impegnarsi su vari fronti. Il primo e più urgente è quello di sovvenire alle esigenze delle tante povertà- materiali e morali- della loro città: non si può parlare bene e non agire affatto. Non fu quello l’esempio di Don Bosco, che diventava anche calzolaio e sarto, di notte, per restituire dignità ai suoi ragazzi sin dal decoro personale.
Il secondo è riprendere con forza il vessillo prestigioso della dottrina sociale cattolica, quale si è formata a partire dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, sino alla Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, passando per la Quadragesimo Anno di Pio XI. Il terzo obiettivo è quello di scuotere le coscienze – dentro e fuori la Chiesa –  sui grandi temi antropologici: la famiglia naturale, la difesa della vita, la natalità, la cosiddetta bioetica, ovvero il giudizio sulle tecnologie che riducono l’uomo, creatura prediletta da Dio, al rango di animale cui applicare le ricette dell’eugenetica in una ripugnante deriva zootecnica, nonché, ovviamente, condurre una battaglia culturale (diremmo kulturkampf, se il termine, riferito alla lunga contrapposizione tra la Germania guglielmina e la Chiesa cattolica, non risultasse politicamente equivoco) contro l’omosessualismo e la perniciosa teoria del gender.
Esiste anche un secondo grande ispiratore, un’altra potente guida morale per il Centro Studi, ed è il cardinale Giuseppe Siri, che i fondatori definiscono il “leone di Genova”, probabilmente l’ultimo grande della città ex Superba. Principe della Chiesa, uomo di fede sicura e cultura finissima, Giuseppe Siri, di cui si dice che non divenne papa per motivi politici in tre conclavi, fu una figura ben più grande del suo stesso ruolo di porporato. In particolare, Genova deve a lui, giovane vescovo ausiliario, avere scongiurato ulteriori devastazioni nella fase tempestosa della fine della seconda guerra mondiale, in seguito le ultime scelte di ampio respiro civico, dalla reindustrializzazione alla coesione sociale sempre perseguita, sino alle battaglie in difesa di decine di migliaia di lavoratori e di centinaia di imprese del porto.
Vogliamo rivolgere alcune domande a Mauro Buzzetti, cooperatore per professione e vocazione, ispiratore e presidente del Centro Studi Sociali San Giovanni Bosco. Egli porta lo stesso cognome dei tre fratelli Buzzetti originari del varesotto che, con Bartolomeo Garelli, furono il primo nucleo di ragazzi che Don Bosco riunì attorno a sé subito dopo la sua ordinazione.
-Mauro, forse nomen omen, il nome è un presagio. Non sei un discendente dei fratelli Buzzetti, ma sei come loro un seguace di San Giovanni Bosco! Perché hai fondato il Centro Studi? E perché proprio a Genova, nel nome del prete dei ragazzi disagiati? – Immagino sia un piccolo segnale della Provvidenza, alla quale si affidò sempre Don Bosco e che porta me nella sequela di un santo come quei ragazzi miei omonimi. Il Centro Studi nasce dalla necessità di centrare un impegno sociale cattolico nella tradizione di sempre e nella grande lezione della dottrina sociale della Chiesa. Da quel filone è nata la cooperazione, il credito popolare – le casse rurali e quelle di risparmio- la concreta realizzazione di opere per difendere i lavoratori, considerare il denaro e lo stesso profitto come mezzi per realizzare obiettivi comuni, sconfiggere la povertà materiale, educare i concittadini, allontanare le miserie morali e spirituali, fondare, come direbbe Sant’Agostino, una città dell’uomo simile alla città di Dio.
Genova, poi, è terra di missione. Qui esiste un drammatico problema di denatalità, qui abbiamo il triste primato di aborti, matrimoni falliti, bambini non battezzati, educati nella totale ignoranza del cristianesimo e di ogni trascendenza. Allo stesso tempo, è una città di anziani, molti dei quali indigenti, malati, non pochi abbandonati dai figli. Vogliamo, dobbiamo, fare qualcosa, per ri- umanizzare questa città.
Genova è stata una delle prime città in cui Don Bosco operò. Il padre di chi scrive queste note, un orfano poverissimo, venne educato al lavoro ed alla vita nello storico istituto di Sampierdarena, fondato dallo stesso santo. Collaborerete con i salesiani, diciamo così, “ufficiali”?  – Noi intendiamo avere relazioni con tutto il mondo cattolico, cui siamo uniti nella fede. Non nascondo però un certo dispiacere per qualche reazione piccata, alla notizia della nascita dell’associazione, da parte salesiana. San Giovanni Bosco è un santo, non un marchio commerciale, un “brand”. Nessuno, a cominciare da noi stessi, ha l’esclusiva della devozione, della memoria o del nome di un personaggio così grande. Occorre, tutti, cercare di esserne degni. Naturalmente, noi saremo sempre dalla parte delle persone che lavorano nel nome di Don Bosco.
-Quali sono i primi obiettivi pratici del Centro Studi? – Già in occasione delle elezioni comunali, abbiamo organizzato un servizio di accompagnamento gratuito al voto per anziani e disabili con auto attrezzata. Una cosa piccolissima, che ha suscitato polemiche incomprensibili, ma che aveva un unico significato, far sentire importante il ruolo civico di ciascuna persona, indipendentemente dalla sua condizione. Continueremo cercando di assistere gli anziani, a partire dalla vita di tutti i giorni, che è fatta di code in farmacia, della spesa quotidiana, purtroppo anche di ospedale, sofferenza, solitudine. Poi, giacché siamo un Centro Studi, proveremo ad influire sul potere pubblico – a Genova si è insediata una nuova amministrazione che speriamo sensibile ai nostri temi – lottando sul versante della natalità. La nostra città, dagli anni 70, ha perduto quasi 250.000 abitanti. E’ come se Verona o Messina non esistessero più. Primum vivere, dobbiamo urgentemente invertire la rotta, qui, in tutta Italia ed in Europa.
– Come si può fare? – Bisogna lavorare su almeno tre versanti: il primo è quello di una politica fiscale ed educativa, dagli asili alle scuole, che premi chi ha il coraggio di accogliere la vita. Meno tasse, più servizi gratuiti, anche interventi a fondo perduto. Funziona in Francia ed altrove, perché non dovrebbe funzionare da noi? Ci sono mille sprechi da combattere, dal clientelismo alle consulenze a tanti stipendi d’oro. Con poco, si può fare molto, evitando, tra l’altro, di offrire patrocinio, cioè vantaggi e denaro, a vergogne come i gay pride. Il secondo pilastro è restituire a questa città la sua vocazione di città del lavoro, del turismo e della cultura. Finita l’era dell’industria pesante, è arrivato il tempo dell’industria “pensante”, fatta di basso impatto ambientale, alto valore aggiunto, valorizzazione delle intelligenze in un ambiente che fa della bellezza una carta vincente. I genovesi diminuiscono perché non si nasce, ma anche perché i giovani vanno via e mettono su famiglia lontano da casa. Dobbiamo tornare grandi, essere di nuovo Superba.
Il terzo versante, il più difficile e lungo da realizzare, è il cambio di cultura, il salto di paradigma, direbbe Thomas Kuhn. Avere figli è una responsabilità, esaltante, ma difficile. Parlo per esperienza diretta, perché ho tre bambini. Accogliere la vita è anche riannodare il filo della tradizione spezzata, avere fiducia nel domani, allontanare da sé l’egoismo. Una civiltà, una nazione, una città che non ha figli è misera, precaria, assomiglia ad una zattera nel mare in tempesta. Studieremo, faremo proposte, cercheremo di dimostrare a questa civiltà estenuata ridotta, come disse il grande poeta cattolica Thomas Stearns Eliot, a vivere nell’unico principio del profitto e della perdita, che avere dei figli, cioè dei successori, conviene anche sotto l’aspetto pratico. Non ne possiamo davvero più di sopravvivere nella Terra desolata, per citare un’altra volta Eliot.
Don Bosco, poi, era un educatore. Mi piace ricordare il brano del Vangelo di Matteo che dice “lasciate che i pargoli vengano a me”. Abbiamo bisogno dei bambini e dei ragazzi, della loro forza, dello stupore e della meraviglia dinanzi alla vita. E abbiamo necessità di formarli secondo i principi di Don Bosco, quelli, ricordiamolo, che hanno fatto grande la nostra gente più semplice.
di Roberto Pecchioli del 01-07-2017

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