ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 10 aprile 2017

L'eutanasia cattolica

Da Lovanio a Roma, l'eutanasia dei "principi non negoziabili"

Lovanio
Ha fatto rumore la vicenda dell'Università Cattolica di Lovanio, che ha sospeso e infine licenziato un proprio professore di filosofia, Stéphane Mercier, per aver scritto in una nota per i suoi studenti che "l’aborto è l’omicidio di una persona innocente".
La cosa non ha sorpreso, visti i precedenti di questa università pur insignita della qualifica di "cattolica", nella cui clinica si praticano da tempo alla luce del sole anche interventi di eutanasia, "dai 12 ai 15 all'anno" a detta del rettore della gemella università fiamminga di Lovanio, il canonista Rik Torfs.
Ma ciò che più colpisce è la sostanziale approvazione che i vescovi del Belgio hanno dato alla cacciata del professor Mercier.
Così come impressiona la reticenza del giornale della conferenza episcopale italiana "Avvenire", che nel dare uno stringato resoconto della vicenda – la cui documentazione più completa è apparsa finora nel blog Rossoporpora – ha evitato di prendere posizione, limitandosi a un: "Rimane da comprendere il significato di ciò che è stato dichiarato dal portavoce della conferenza episcopale belga".
Per non dire del silenzio di papa Francesco, che pure non ha mancato in altre occasioni di definire l'aborto "crimine orrendo".

C'è in effetti un notevole stacco tra come il papato e gran parte della gerarchia cattolica intervengono oggi su aborto ed eutanasia e come invece intervenivano ieri.
Quelli che durante i precedenti pontificati erano "principi non negoziabili" oggi sono diventate realtà da "discernere" e "mediare" sia in politica che nella pratica pastorale.
La conferenza episcopale italiana e il suo giornale "Avvenire" sono esempi perfetti di questa mutazione.
Nel febbraio del 2009, quando l'Italia fu scossa dal caso di Eluana Englaro, la giovane in stato vegetativo a cui fu tolta la vita troncandole l'alimentazione e l'idratazione, l'attuale direttore di "Avvenire" Marco Tarquinio scrisse un editoriale di fuoco, definendo quell'atto una "uccisione".
Mentre oggi c'è un altro clima. Basti vedere il garbato distacco con cui "Avvenire" riferisce e commenta la legge attualmente in discussione in Italia sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, in sigla DAT, cioè le indicazioni date previamente ai medici sulle cure per essere tenuti o no in vita in caso di perdita di conoscenza.
Un esempio lampante di questo cambiamento di rotta è dato dal professor Francesco D'Agostino, docente di filosofia del diritto all'Università di Roma Tor Vergata e alla Pontificia Università Lateranense, presidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, presidente onorario del comitato nazionale italiano per la bioetica, membro della pontificia accademia per la vita, editorialista di "Avvenire", insomma, storico punto di riferimento della Chiesa italiana per quanto riguarda le questioni bioetiche.
La lettera riprodotta qui sotto mette appunto in luce il contrasto tra ciò che scrive oggi il professor D'Agostino sulle dichiarazioni anticipate di trattamento e ciò che scriveva sulla stessa materia dieci anni fa.
Autore della lettera è l'avvocato Antonio Caragliu, del foro di Trieste, anche lui membro dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani.
Due notazioni per la migliore comprensione del suo scritto:
– l'onorevole Mario Marazziti, deputato dal 2013 e presidente della commissione per gli affari sociali che si occupa della legge sulle DAT, è membro di primissimo piano della Comunità di Sant'Egidio, di cui è stato per molti anni portavoce;
– monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della conferenza episcopale italiana e con un legame diretto con papa Francesco che l'ha personalmente insediato in questa carica nel 2013 e confermato fino al 2019, è di fatto l'editore unico di "Avvenire", su cui ha pieno e pressante controllo.
Ecco dunque la lettera.
*
Caro Magister,
trovo interessante confrontare l'editoriale del professor Francesco D'Agostino, pubblicato su "Avvenire" del 30 marzo 2017, intitolato "Sulle DAT necessaria una buona legge. Non tutto è eutanasia. La storia chiede coraggio", con un suo altro editoriale, pubblicato dieci anni prima sempre su "Avvenire", il 6 aprile 2007, eloquentemente intitolato "Come uno scivolo mascherato verso l'eutanasia".
Nel 2007 D'Agostino sosteneva che le dichiarazioni anticipate di trattamento possono considerarsi giuste e valide a determinate condizioni, tra le quali contemplava le seguenti:
1. che il medico, destinatario delle dichiarazioni anticipate, pur avendo il dovere di tenerle in adeguata e seria considerazione, non venga mai dalla legge vincolato alla loro osservanza (esattamente come il medico di un paziente "competente" non può mai trasformarsi in un esecutore cieco e passivo delle richieste di questo);
2. che il rifiuto delle terapie non comprenda l'idratazione e l'alimentazione artificiale, dovendosi queste considerare "forme pre-mediche di sostentamento vitale, dotate di un altissimo valore etico e simbolico e la cui sospensione realizzerebbe di fatto una forma, particolarmente insidiosa, perché indiretta, di eutanasia". Nel sostenere ciò D'Agostino si richiamava al documento del comitato nazionale per la bioetica del 18 dicembre 2003 sulle "Dichiarazioni anticipate di trattamento".
Ora, l'art. 3 del disegno di legge attualmente all'esame della commissione per gli affari sociali, presieduta dall'onorevole Mario Marazziti, non rispetta né l'una né l'altra di queste due condizioni.
Ma nonostante ciò il professor D'Agostino scrive che "il disegno di legge non è in alcun modo finalizzato a introdurre in Italia una normativa che legalizzi l'eutanasia". Anzi, solo "un interprete subdolo e malevolo" potrebbe giungere a una simile conclusione, attraverso un'"interpretazione forzata".
Non c'è da stupirsi che molti giuristi cattolici siano rimasti sorpresi dalla svolta del professor D'Agostino, che presiede la loro associazione.
È una svolta che, a mio parere, può trovare spiegazione nella posizione di sostanziale apprezzamento del disegno di legge oggi in esame espressa dal segretario generale della conferenza episcopale italiana Nunzio Galantino nella conferenza stampa conclusiva del consiglio permanente della CEI del 26 gennaio 2017.
Ha detto in quell'occasione Galantino:
"Nella commissione per gli affari sociali, presieduta dall'onorevole Mario Marazziti, stanno preparando un testo al quale guardare con interesse. È venuto fuori con chiarezza che non si deve attribuire tutto il potere alla persona, perché l'autodeterminazione smonta l'alleanza tra paziente, medico e familiari e finisce per essere solo il trionfo dell'individualismo".
Insomma, per Galantino il testo in esame rappresenta un buon compromesso. Il tutto in linea con la ormai nota politica del segretario generale della CEI, attento ad evitare qualsiasi contrapposizione dei cattolici nei confronti del governo di centro-sinistra in carica. Come a dire che l'azione dei cattolici in politica deve essere dettata dagli orientamenti dell'alto ecclesiastico di turno, in questo caso lui, in una ennesima forma di clericalismo.
Ovviamente la situazione è spiacevole, sotto diversi punti di vista.
Sarebbe augurabile che il professor D'Agostino, quello del 2007, che è persona di provata intelligenza e competenza, si chiarisca con il professor D'Agostino del 2017. E poi, magari, si confronti con monsignor Galantino. Senza assecondarlo.
Un caro saluto,
Antonio Caragliu
Settimo Cielo di Sandro Magister 10 apr  


http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/04/10/da-lovanio-a-roma-leutanasia-dei-principi-non-negoziabili/ 


"La chiamano Dat" ma è eutanasia per il Prof. Ferraresi (Giuristi cattolici)

07 aprile 2017 ore 14:00, Marta Moriconi

La chiamano Dat, ma è eutanasia. E' questa in sostanza l'opinione di molti giuristi cattolici, anche se non tutti sono d'accordo. Lo dimostra il confronto che si è aperto, anche con toni piuttosto accesi, sull'ultimo intervento del Presidente dell’Unione giuristi cattolici (e presidente emerito del Comitato nazionale per la bioetica) Francesco D'Agostino pubblicato da Avvenire dal titolo“Sulle Dat necessaria una buona legge. Non tutto è eutanasia. La storia chiede coraggio”. All'interno scrive: "La storia ci impone di avere coraggio, di abbandonare in parte (solo in piccola parte!) il vecchio paradigma della medicina ippocratica e di contribuire alla costruzione di un paradigma nuovo e molto più complesso. E chi perde gli appuntamenti con la storia sarà costretto, prima o poi, a pentirsene amaramente. Adesso serve il dibattito in merito alla legge sul consenso informato, sulle dichiarazioni anticipate di trattamento e, più in generale, sul fine vita".
IntelligoNews ha deciso di aprire proprio una discussione sull'argomento, ospitando le opinioni di esperti e politici. 
Oggi presentiamo il punto di vista di Marco Ferraresi, membro del Consiglio centrale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani e Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici di Pavia: "Con la legge sul fine vita - spiega - si consentirebbe la perdita definitiva della libertà”. 
'La chiamano Dat' ma è eutanasia per il Prof. Ferraresi (Giuristi cattolici)

Professore, nella discussione della legge sul fine vita pare sia scoppiato il putiferio tra i Giuristi cattolici. E’ vero? 

"Il Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, Francesco D’Agostino, ha commentato su Avvenire in maniera essenzialmente positiva la proposta di legge sul fine vita. Ha affermato che essa non introdurrebbe alcuna forma di eutanasia e che, anzi, chi sostiene questa tesi forzerebbe l’interpretazione del testo. Io dissento".

La sua opinione dunque qual è?

"A mio avviso hanno ragione gli oltre 250 giuristi che hanno firmato l’appello del Centro Studi Livatino. La proposta di legge contiene evidenti disposizioni eutanasiche".

E quali sarebbero queste disposizioni?

"L’articolo 1 prevede il diritto del paziente di rifiutare o interrompere le terapie. E sono chiamate terapie anche l’idratazione e l’alimentazione artificiali. Il medico sarebbe obbligato ad eseguire la volontà del paziente o astenendosi dal salvarlo (eutanasia omissiva) o compiendo atti esecutivi, ad es. intervenendo per togliere una flebo alla persona in cura (eutanasia commissiva). L’articolo 2 prevede che, per i minori e gli incapaci, rifiuto e interruzione siano decisi dai genitori o tutori. Infine, l’articolo 3 obbligherebbe il medico ad attenersi al rifiuto o alla interruzione anche se espressi mediante le DAT, cioè “disposizioni” anticipate (e vincolanti) di trattamento. Disposizioni redatte in previsione di una eventuale futura malattia, magari a molti anni di distanza". 

Ma queste norme non tutelerebbero meglio la libertà della persona?

"Direi piuttosto che queste norme consentirebbero di perdere definitivamente la libertà, insieme alla vita. Mentre il diritto italiano attuale protegge inderogabilmente la vita di un malato – anche con la punizione di reati come l’omicidio del consenziente o l’istigazione al suicidio – con questa legge la vita diventerebbe un bene relativo, rinunciabile. E il medico potrebbe essere obbligato a operare il contrario di quanto la sua professione esige, cioè salvare la vita del paziente, prendersi cura del malato. Si osservi a tal proposito che non è prevista l’obiezione di coscienza. Quanto ai minori e agli incapaci, la loro vita sarebbe nelle mani dei rappresentanti legali. Ben oltre, dunque, la stessa sbandierata “autodeterminazione”.

Secondo lei c’è contraddizione tra le parole di D’Agostino e quelle del Presidente della CEI, Angelo Bagnasco?

"D’Agostino parla da giurista, Mons. Bagnasco come Pastore della Chiesa. Hanno dunque un approccio diverso. Però mi pare che le rispettive valutazioni della proposta di legge siano di segno diverso. Al di là di ciò – questo soprattutto mi preme – ritengo che i giuristi cattolici debbano opporsi senza ambiguità a leggi che introducano il “diritto” di darsi e di dare la morte e di pretendere, in ciò, l’altrui collaborazione. Il quinto comandamento, “non uccidere”, non può essere abrogato da nessuna autorità umana".
http://www.culturacattolica.it/?id=17&id_n=39923

“Subdolo o malevolo”: caro D’Agostino, non le sembra un tantino esagerato?

martedì 4 aprile 2017

Il Prof. D’Agostino si pone dalla parte dei fautori dell'eutanasia, con argomentazioni farlocche
Il 30 marzo scorso sul giornale dei Vescovi italiani, Avvenire, è apparso un articolo a firma del prof. Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, che ha fatto molto discutere, tanto che Marco Ferraresi, Consigliere centrale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, nonché Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici di Pavia, ha pubblicamente preso le distanze dal suo Presidente con un articolo pubblicato sulla Nuova Bussola Quotidiana.

Ed in effetti, le sue affermazioni appaiono dal tenore apodittico, ma sicuramente opinabili. Infatti, D’Agostino afferma: “Sulle Dat è necessaria una buona legge. (...) Il disegno di legge non è in alcun modo finalizzato a introdurre in Italia una normativa che legalizzi l’eutanasia. Questo è ciò che invece sostengono alcuni tra i suoi avversari, ma per farlo devono interpretarlo in modo forzato. Onestà vuole che una legge vada valutata per ciò che dice e non per ciò che potrebbe farle dire un interprete SUBDOLO O MALEVOLO”. [maiuscolo mio]

E’ curioso l’atteggiamento del prof. D’Agostino quando attribuisce a chiunque la pensi diversamente da lui sul ddl delle DAT un atteggiamento “subdolo o malevolo”.
Questa affermazione, per altro, è ancor più strana perché è lui stesso che nel suo articolo afferma: “Non c’è dubbio che la possibilità di una simile interpretazione [cioè in senso eutanasico], una volta approvata la legge, esista e che esistono alcuni rumorosi parlamentari che sostengono che nella prossima legislatura si dovrà passare ad approvare un’altra legge che esplicitamente riconosca l’eutanasia. Ma se ci lasciamo condizionare da questi timori, finiamo per pietrificare il nostro ordinamento”. Quindi, con questa sua affermazione, il prof. D’Agostino ammette che si corre un grande rischio. Ma il punto non è che ci possa essere un grande rischio DOPO l’approvazione della legge, ma che è la stessa attuale proposta di legge a portare già ORA nella sua sostanza, anche se non nella forma, un contenuto eutanasico. La forma della legge è stata abilmente costruita per nascondere quello che non deve essere immediatamente visto: una larvata forma di eutanasia.

Risulta chiaro, dunque, che quello che il prof. D’Agostino ipotizza essere un rischio, non è affatto un rischio, ma è semplicemente un dato di fatto, un primo passo verso un pendio molto scivoloso. E’ questa una storia che abbiamo già visto verificarsi in altri Paesi occidentali. Infatti, approvata questa legge, la fase successiva sarà quella di approvare un’altra che manifesti palesemente, cioè anche nella forma, il diritto all’eutanasia.

Ci domandiamo, avverrà anche per l’eutanasia quello che è già avvenuto nella storia per il divorzio, l’aborto e il matrimonio gay, e cioè che saremo proprio noi cattolici a far da sponda all’introduzione nell’ordinamento giuridico di quanto in sé è un male, come la dottrina cattolica ci insegna? Con addirittura la convinzione di aver fatto pure una cosa opportuna? Infatti, il prof. D’Agostino scrive: “un intervento legislativo in tema di fine vita, intelligente e consapevole dello spessore dei problemi, è opportuno, anzi necessario, se non vogliamo chiudere gli occhi, pigramente e colpevolmente, davanti a una realtà che sta mutando a velocità vorticosa.”

E’ curiosa quest’altra affermazione del prof. D’Agostino: “Estremamente opportuna, in tal senso, mi sembra l’indicazione, entrata nel disegno di legge, secondo la quale il paziente non può esigere trattamenti sanitari che vadano contro la legge, le buone pratiche cliniche o la deontologia professionale degli operatori sanitari. Una simile norma dovrebbe tranquillizzare molti critici della nuova normativa”. Stare tranquilli? Al contrario, ci domandiamo come faccia il prof. D’Agostino a sentirsi tranquillizzato da quella inconsistente “difesa” da lui menzionata, visto che nell’attuale proposta di legge sono del tutto scomparsi, rispetto alla precedente versione, il riconoscimento del diritto inviolabile della vita umana, il divieto di qualunque forma di eutanasia, di omicidio del consenziente e di aiuto al suicidio. Come fa il prof. D’Agostino a sentirsi tranquillo se la nutrizione e l’idratazione artificiali sono qualificati come trattamenti sanitari, e come tali essere interrotti come si farebbe con qualunque farmaco? Occorre capire che se dall’inizio non si mettono dei punti fermi, dei paletti vincolanti, escludenti in maniera chiara e definitiva l’eutanasia e quant’altro ad essa conforme, velleitario risulterà qualsiasi desiderio che l’irreparabile non accada, perché qualsiasi “diga” posta a difesa della vita risulterà come fosse costruita con la cartapesta, destinata immediatamente a sbriciolarsi.

Inoltre, come fa il prof. D’Agostino a dichiarare la sua tranquillità di fronte ad una proposta di legge che impone al medico di assecondare la volontà di suicidio del paziente, stravolgendone così il suo ruolo, la sua funzione e, possiamo tranquillamente dire, la sua MISSIONE? Come si fa a stare tranquilli dinanzi ad una legge che abolisce la obiezione di coscienza del medico? Come si fa a star tranquilli davanti ad uno Stato che ti impone di partecipare, anche se in forma omissiva, ad un suicidio che la tua coscienza rifiuta recisamente? La coscienza può essere tranquillizzata dal fatto che lo Stato depenalizzerebbe il reato?

Eppure il card. Bagnasco, nella sua ultima prolusione, ha sottolineato la gravità della proposta di legge con queste parole: «Si rimane sconcertati anche vedendo il medico ridotto a un funzionario notarile, che prende atto ed esegue, prescindendo dal suo giudizio in scienza e coscienza; così pure, sul versante del paziente, suscita forti perplessità il valore praticamente definitivo delle dichiarazioni, senza tener conto delle età della vita, della situazione, del momento di chi le redige: l’esperienza insegna che questi sono elementi che incidono non poco sul giudizio. La morte non deve essere dilazionata tramite l’accanimento, ma neppure anticipata con l’eutanasia: il malato deve essere accompagnato con le cure, la costante vicinanza e l’amore. Ne è parte integrante la qualità delle relazioni tra paziente, medico e familiari».

Ma nonostante questi accorati ed autorevoli avvertimenti, quello che più colpisce è che dinanzi ad una legge inemendabile, perché affetta da gravi deficienze che sono figlie di una cultura ideologica che sminuisce o disprezza la sacralità della vita, vi siano cattolici che sono presi dalla frenesia di essere al passo con i tempi. Cattolici come il prof. D’Agostino che affermano: “La storia ci impone di avere coraggio, di abbandonare in parte (solo in piccola parte!) il vecchio paradigma della medicina ippocratica e di contribuire alla costruzione di un paradigma nuovo e molto più complesso. E chi perde gli appuntamenti con la storia sarà costretto, prima o poi, a pentirsene amaramente.”

Caro professore D’Agostino, siamo proprio sicuri che quello che serve in questo momento sia il coraggio e non la ragionevolezza?http://www.culturacattolica.it/?id=17&id_n=39923



Giudicare? Ecco perché il cattolico non solo può, ma deve farlo

    Dodici anni fa, il 18 aprile 2005, dopo la morte di Giovanni Paolo II, nella «Missa pro eligendo romano pontifice», il decano del collegio cardinalizio, il cardinale Joseph Ratzinger, pronunciò un’omelia che alle orecchie di molti suonò come un programma da affidare al futuro pontefice.
Un passaggio, in particolare, colpì tutti i presenti. È quello, famoso, nel quale Ratzinger denunciò la dittatura del relativismo, che ammette come unico metro di giudizio il proprio io moralmente ineducato: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero. La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
Poi il decano disse: «Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. È quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede  –  solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13, 1)».
Le parole dell’allora cardinale Ratzinger a molti possono sembrare superate. A me invece sono tornate alla mente leggendo il libro «Who Am I to Judge? Responding to Relativism with Logic and Love» («Chi sono io per giudicare? Una risposta al relativismo con la logica e l’amore»), del teologo Edward Sri, docente all’Augustine Institute di Denver, Colorado.
In questo testo il professor Sri si mette nei panni di tanti cattolici che, sottoposti alla mentalità relativista ormai ampiamente dominante, hanno paura di sostenere che sotto il profilo morale esiste un bene oggettivo e un male oggettivo e che dunque ci sono davvero scelte moralmente giuste o sbagliate.
Perché paura? Perché, risponde Sri, temono di offendere qualcuno e siccome non vogliono fare del male, ma apparire amorevoli, comprensivi e disponibili, evitano di formulare un giudizio morale sul comportamento delle persone.
Sri parte dalla sua esperienza accademica e ricorda tutte le volte che gli è stato chiesto: «Ma chi sei tu per giudicare? Chi sei tu per dire alla gente che cosa è giusto e che cosa è sbagliato? Perché la Chiesa cattolica ha la pretesa di giudicare?».
Da lì, rendendosi conto di quanto il relativismo influenzi ormai il comune sentire, il teologo ha preso spunto per incominciare a spiegare ai suoi alunni che c’è una differenza tra formulare un giudizio morale e giudicare l’anima di una persona.
Quando Gesù raccomanda di non giudicare ci chiede di non prendere il posto di Dio, perché solo Dio sa che cosa c’è nel cuore di ogni uomo, ma di certo non ci chiede di astenerci da ogni valutazione morale cadendo nel relativismo.
Paolo ricorda che l’uomo spirituale giudica «ogni cosa», e lo fa alla luce della Parola di Dio. Il giudizio è quindi amore. Ecco perché il cattolico, di fronte al fratello che sceglie il male, non può dire semplicemente «Io non lo farei, ma tu fai pure, basta che vada bene per te». Questo non è amore. Questa è indifferenza e, alla fine, collaborazione con il male.
Il professor Sri sostiene che mentre nelle parrocchie ci sono, giustamente, programmi per la preparazione ai sacramenti, per la fede dei bambini e degli adulti, perfino per lo studio della Bibbia, non c’è quasi nulla per aiutare i cattolici a ritrovare la capacità di giudicare la realtà in termini morali. Sotto sotto prevale l’idea che un simile lavoro non vada fatto, per non creare tensioni, per non offendere le sensibilità delle persone. Ma in questo modo si lascia che le creature restino moralmente allo sbando.
Il problema interpella molto i genitori, che spesso non solo non hanno gli strumenti per proporre risposte morali ai figli, ma ritengono che le risposte non vadano date. Prevale l’idea che i giovani dovranno fare le loro esperienze e poi giudicheranno, in base a ciò che l’esperienza avrà insegnato. Ma questa via non è cattolica. Questa è proprio la via indicata dal relativismo.
Occorre recuperare l’idea che la Chiesa, maestra in umanità, non giudica per il gusto di sanzionare e dividere, ma per il bene delle creature, per non lasciarle in preda al disorientamento morale che, confondendo il male con il bene, le conduce su una strada non di salvezza ma di perdizione.
Troppo spesso, dice Sri, separiamo verità e misericordia, verità e compassione, come fossero cose diverse, mentre, al contrario, vanno sempre insieme. Mai dimenticare che quando Gesù, di fronte all’adultera, dice ai suoi accusatori «chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra», non legittima il relativismo, per cui nessuno può giudicare nessuno, ma mette gli accusatori di fronte alla necessità di un esame di coscienza. E poi è vero che alla donna dice «neanch’io ti condanno», ma le dice anche «va’ e d’ora in poi non peccare più».
Un’altra argomentazione che il professor Sri propone di utilizzare nei confronti del relativismo riguarda la reciprocità. Quando un amico relativista ti dice «tu non puoi giudicare le persone, ognuno può fare come gli pare», non bisogna aver paura di replicare che, in questo modo, il relativismo, che parla tanto di libertà, pretende di imporre a tutti la sua visione del mondo.
Noi cristiani, conclude Sri, siamo troppo sulla difensiva. Dovremmo recuperare un po’ di coraggio e trovare il modo di mostrare che la nostra attenzione per il giudizio morale nasce dall’amore verso le persone, non dal desiderio di condannarle.
Proprio mentre leggevo le argomentazioni di Edward Sri mi sono imbattuto anche in un’interessante intervista, pubblicata dall’«Osservatore romano», con  il frate minore conventuale Rocco Rizzo, rettore del Collegio dei penitenzieri vaticani che accolgono le persone nei confessionali della basilica di San Pietro.
Alla domanda su come vivono oggi i giovani il sacramento della confessione, padre Rizzo risponde: «C’è una buona percentuale che si confessa da noi. Alcuni provengono da comunità, gruppi, associazioni laicali e sono più preparati alla confessione. Molti invece si sono accostati al sacramento in occasione della prima comunione e si sono fermati lì. Quando capitano questi casi, la confessione diventa molto difficile, soprattutto perché bisogna aiutare il penitente a scavare un po’ dentro la coscienza».
Quale la principale difficoltà nel confronto con i giovani?
Sta nel fatto, risponde il penitenziere, che «per i giovani di oggi è difficile riconoscere i peccati. Non hanno una coscienza formata. Il relativismo ormai ha preso il sopravvento e quindi si è perso il senso del peccato. Alcune questioni per molti non rappresentano un problema, per cui non vengono considerate nemmeno materia di confessione».
La risposta di padre Rizzo è chiara e mi fa pensare a quanto riferiscono molti catechisti, secondo i quali, nel rapporto con i giovanissimi, prima ancora di trasmettere contenuti di fede si tratta di ripristinare una coscienza morale che è già assopita a causa del relativismo respirato fin dai primi anni di vita.
Occorre aiutare la coscienza a risvegliarsi, dimostrando che il richiamo alla responsabilità personale di fronte al bene e al male, in senso oggettivo, non è un’inutile complicazione, un peso caricato sulle spalle della creatura innocente, ma l’unico modo verso l’autentica libertà, perché là dove la voce di Dio è messa a tacere la persona diventa schiava: a volte di se stessa e delle proprie debolezze, a volte di un’ideologia, a volte di sistemi di convenzioni tanto più falsi e anti-umani quanto più si presentano come fonti di liberazione interiore.
Ho incominciato con un pensiero dell’allora cardinale Ratzinger e voglio concludere ancora con lui.
«La coscienza richiede formazione e educazione. Può diventare rachitica; può essere distrutta; può essere deformata a tal pun­to da riuscire a esprimersi solo a stento o in maniera distorta. Il silenzio della coscienza può diventare una malattia mortale per una intera civiltà. Incon­triamo di tanto in tanto, nei Salmi, la preghiera a Dio perché liberi l’uomo dai suoi peccati nascosti. Il salmista vede come il più grande pericolo il non riconoscerli più come peccati, e cadere in essi apparentemente con buona coscienza. Non riuscire ad avere una coscienza di colpa è una malattia, come è una malattia l’assenza di dolore in una malattia. Non si può quindi accettare il principio che ognuno può sempre fare ciò che la sua coscienza lo autorizza a fare: in tal caso, un individuo senza coscienza sarebbe autorizzato a fare qualsiasi cosa. Invece è proprio per colpa sua se la coscienza è tanto oscurata che egli non vede più quello che, in quanto uomo, dovrebbe vedere […]. Questo significa per noi che il Magistero della Chiesa ha la responsabilità di una corretta formazione. Si rivolge, per così dire, alle vibrazioni interne che le sue parole suscitano nel processo di maturazione della coscienza […]. A questo corrisponde quindi un obbligo del Magistero di pronunciare la sua parola in modo tale che possa essere compresa in mezzo ai conflitti di valori e di orientamenti» (tratto da «Coscienza e verità. Conferenza a Dallas ed a Siena», in «La Chiesa. Una comunità sempre in cammino», Edizioni Paoline, 1991, pagg.113-137).
Aldo Maria Valli

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