ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 26 ottobre 2016

Questione di soli diamanti?

ad resurgendum

Speranza o certezza nell'Al di là?

La porta del CIelo
Miei cari lettori, non turbatevi e non stancatevi se ripeto che il nostro Cristianesimo, in Europa Occidentale, è gravemente malato. Non faccio che constatarlo di continuo, ad ogni piè sospinto. Ieri ho partecipato ad un evento luttuoso, evento coperto da molti rischi.

Il rischio di una liturgia banale non c'era: la messa era quella tradizionale (la “tridentina”), fatta con molta pietà e raccoglimento.

Il rischio di un sacerdote secolarizzato non c'era: il buon prete che ha celebrato era quanto di meglio si potesse trovare in tutto il Friuli (e non sto scherzando né facendo un complimento o un'esagerazione), uomo pio, umile e con un profondo senso delle tradizioni.

Il rischio di essere in una chiesa-garage non c'era: la chiesa della celebrazione era un piccolo salotto antico, calda e accogliente.


Insomma, questo evento luttuoso era celebrato con una liturgia che sicuramente Dio ha gradito.

Ciononostante, c'è stato qualcosa che, ad un certo punto, mi ha fatto sobbalzare. L'ottimo prete, in un istante della sua appropriata omelia, ha accennato che “bisogna avere speranza nell'Al di là”. Le mie orecchie hanno sentito la frase ma, più delle orecchie, il mio cuore ha assaporato lo spirito con cui veniva detta. Ho sentito la natura troppo mentale di tale frase: partiva dalla mente, come affermazione frutto di logica, e vi ritornava chiudendosi logicamente su se stessa e facendo leva su un dovere morale di tipo religioso. Era qualcosa di molto piatto. Immediatamente il mio cuore ha sussultato e mi sono detto: “Bisogna avere la speranza nell'Al di là? No! Si ha la certezza nell'Al di là!”.

Coincidenza volle che la sera ho avuto modo di sentire un ottimo amico, intellettuale, storico e filosofo ma, soprattutto, uomo spirituale. Costui, senza sapere di questa mia esperienza mattinale, ha toccato lo stesso tasto. Ho capito, allora, che questo tema era molto importante, fondamentale, al punto che si gioca tutto qui.

Ma perché inconsapevolmente quest'ottimo prete ha parlato di una speranza (di ordine intellettuale) mentre io ho reagito proponendo una certezza? È presto detto.

Nei secoli, all'interno del mondo cattolico c'è stato un progressivo allontanamento e diffidenza dall'esperienza mistica con la quale un animo religioso si accosta al Dio ineffabile e ne percepisce la reale presenza. Questo allontanamento, marcato anche dalla condanna al Quietismo nel XVII secolo, ha accentuato l'impegno nel sociale e l'intellettualizzazione del Cristianesimo. Il Cristianesimo è divenuto sempre più un'agenzia morale (ci si deve comportare “bene” per meritare il Paradiso) e un'accademia teologico-intellettuale. Non meraviglia che Kant abbia estremizzato i termini di un discorso che, logicamente, andava nella sua direzione con la sua opera “La religione entro i limiti della semplice ragione”. Sintetizzo per sommi capi un discorso molto complesso ma, ciononostante, il lettore capirà che qui a rimetterci le penne è proprio l'escatologia Cristiana, l'Al di là stesso. Tutto si esaurisce e si motiva nell'Al di qua.

In un quadro di questo tipo non fa meraviglia che anche un ottimo prete ne esca impolverato, che faccia leva su una concezione morale e si muova su un piano logico-intellettuale.

Al contrario, l'Al di là, come Dio stesso, appartiene alla mistica cristiana, al campo delle percezioni interiori, quelle percezioni che, poi, costruiscono le certezze. In origine la speranza cristiana stessa si fonda su tali certezze al punto che la si può così sintetizzare: siccome io Ti sento per grazia, spero nella tua bontà verso di me, nella possibilità che Tu mi accolga eternamente nella tua gioia.

Ma se prescindiamo dall'esperienza del Divino, quindi dalla prospettiva mistico-spirituale, tutto diviene “dovere” morale, convenzione religiosa, cosa che si “deve pensare”. No, il Cristianesimo non è un pensiero, è un'esperienza. Il pensiero viene dopo e, a mio avviso, non è neppure così importante, dal momento che un pensiero può essere benissimo combattuto con un altro pensiero ma l'esperienza si afferma per se stessa e non può essere contraddetta da nulla. Infatti i farisei potevano pure argomentare contro Cristo, al cieco nato, ma costui gli oppose la forza di un'evidenza esperienziale: "Una cosa so, che ero cieco e ora ci vedo" (Gv 9, 25). Ecco perché un cristiano provato ha la certezza dell'Al di là, non una sua misera e umbratile “speranza intellettuale” appoggiata a concetti e parole.

Ma se si indica diversamente, se il baricentro della vita cristiana sta altrove, si capisce benissimo che si finisce per giungere ad un quadro generale che, in Occidente, non tiene più e trascina tutto dietro di sé. 
La mistica bizantina, al contrario, ci riporta nella retta prassi, non perché è bizantina o perché è orientale ma perché riporta ad un senso autentico del Cristianesimo, ad una prassi antica, a quanto dovrebbe sempre essere. Con essa si può dire: “Io [o Dio] ti conoscevo per sentito dire ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5).

Se certi ambienti ecclesiali non ci portano fino alle soglie di questa percezione hanno fallito totalmente e non hanno più alcun senso. Al contrario, la Chiesa nella sua vera e intima essenza non può che fondarsi su Dio e sulla sua reale percezione, non può che accompagnare già su questa terra alle soglie del paradiso, dalle fessure delle cui porte intravvediamo luce. Ecco perché sant'Ambrogio si permetteva di contrastare l'imperatore rispondendogli: “O Imperatore voi rendete culto [pagano] a ciò che non conoscete, noi [cristiani], al contrario, rendiamo culto a ciò che conosciamo”. Sicuramente la conoscenza di Ambrogio non era una conoscenza prettamente intellettuale ma intuitivo-spirituale, l'unica che ci permette di avere certezza nelle cose di fede! Si insegna questo nei nostri ambienti e nei nostri seminari? No di certo e i prodotti si vedono dal momento che pure i praticanti sono feriti da lancinanti dubbi e lo stesso papa (ahimé!) giunge a giustificarli affermando  che se non si dubita si è un poco scemotti, vera e propria blasfemìa, questa ...

VITTORIO MESSORI: PERCHÉ IL SÌ ALLA CREMAZIONE È UN INDICE DELLA PERDITA DI IDENTITÀ CATTOLICA

Vittorio Messori: perché il sì alla cremazione è un indice della perdita di identità cattolica
di Vittorio Messori (da Pensare la storia, 1992) 

Esulta il competente assessore del Comune di Torino perché, in due soli anni, le cremazioni sono aumentate del 200 per cento. Si prevede che, tra non molto, si potrà arrivare alla situazione dell’Europa settentrionale, dove ormai il numero dei defunti inceneriti è superiore a quello degli inumati. Una prospettiva garantita ora in Italia da nuove disposizioni di legge, secondo le quali non è più necessario per la cremazione che il defunto abbia lasciato disposizioni in proposito: per lui può decidere il parente più prossimo.
La soddisfazione particolare a Torino deriva dal fatto che il boom delle fiamme segna il successo di una campagna pubblicitaria del Comune. Si propagandava la cremazione con alcuni slogan (del tipo «l’anima non è bruciata») che intendevano rassicurare i cattolici che ancora esitassero. La Curia stessa non aveva dato parere negativo a quella pubblicità. Né, del resto, avrebbe potuto farlo, visto che il nuovo Codice di Diritto Canonico, al terzo paragrafo del canone 1176, così recita: «La Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti; tuttavia non proibisce la cremazione, a meno che questa non sia stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina cristiana».
La nuova norma si adegua all’iniziativa di Paolo VI che, nel clima di eccitazione - se non forse, talvolta, di distruzione - dell’immediato postconcilio, aveva deciso di infrangere una tradizione gelosamente custodita dalla Chiesa sin dai suoi inizi. Può essere allora interessante riflettere sulle nuvole che stanno in quel libro inquietante (e in qualche modo “terribile’’) che è Jota unum dello svizzero Romano Amerio. Sentiamo: «Se l’immortalità dell’anima è dogma di tutte le religioni, la resurrezione dei corpi è invece dogma esclusivo del cristianesimo ed è di tutti il più ostico alla ragione, oggetto di pura fede, primo e ultimo dei paradossi. In nessunissima credenza, fuorché nel cristianesimo, si trova chiaramente che i corpi risorgano un giorno ripigliando il filo dell’identità della persona ridivenuta "tutta quanta". Ora, questa verità osticissima alla ragione è il punctum saliens del sistema cattolico, ed è per nutrire la fede in essa che la Chiesa rifiutò sempre di bruciare i cadaveri. In morte l’uomo non è più: ma il corpo, che fu uomo - e che sarà uomo nella resurrezione finale - è degno di rispetto e di cura».
Continua Amerio: «L’antichissimo e mai intermesso costume di interrare i morti deriva dall’idea evangelica e paolina del seme interrato e del corpo seminato corruttibile e risorgente immortale (1Cor 15,42). La sepoltura cristiana imitava soprattutto la sepoltura di Cristo. La Chiesa non ha mai ignorato che anche quella riduzione in polvere che risulta dalla cremazione non pregiudica alla ricostituzione dei corpi risorgenti; ma una religione in cui tutta la realtà è segno non poteva disconoscere che la combustione del cadavere è un antisegno della resurrezione. L’incinerazione leva di mezzo tutta la simbolica dell’inumazione e priva di significato i mirabili vocaboli stessi trovati dai primi cristiani: cimitero, cioè dormitorio; camposanto, cioè luogo di consacrati a Dio; deposizione, non nel senso fisico di porre già entro la terra, ma nel senso legale, onde le salme sono date in deposito da restituire il giorno della resurrezione. Questi valori simbolici parvero così potenti che la Chiesa li fece trapassare in valori teologici: il far cremare la propria salma fu tenuto per professione dì incredulità».
La conclusione del laico studioso è, al suo solito, severa: «La perdita dell’originalità della Chiesa, anche in cose dì tradizione immemorabile e di alto senso religioso, rientra nel generale fenomeno dell’accomodazione al mondo, della decolorazione del sacro, dell’invadente utilitarismo e dell’eclissazione del primario destino ultramondano dell’uomo».

Questo Jota unum ha per sottotitolo «Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo». In effetti, quella voluta (o, almeno, accettata) da Paolo VI costituisce una delle più vistose “variazioni” cattoliche. Per rispettare il simbolismo della resurrezione e per imitare il Cristo, il cui corpo fu deposto in un sepolcro e non bruciato su una pira funeraria, sin dai suoi inizi la Chiesa fu tenacissima nell’opporsi alla cremazione praticata dai pagani. Nelle catacombe non si trova una sola urna cineraria, nei tempi di persecuzione i fedeli sfidarono la morte per seppellire i corpi delle vittime e sottrarli al rogo.
Tertulliano chiama la cremazione «consuetudine atrocissima» e già nel 627 il terzo Concilio di Toledo poteva definire la sepoltura come «ininterrotta e sempre praticata prassi della Chiesa». L’insegnamento fu così costante e preciso che nemmeno la Rivoluzione francese riuscì a far passare la cremazione nel suo delirante “pacchetto” di leggi di scristianizzazione: ci fu, nel 1796, una proposta, ma il provvedimento fu poi lasciato cadere per l’ostilità popolare.
Ciò che non riuscì ai giacobini, fu ripreso con decisione, a partire dalla metà dell’Ottocento, dalla massoneria, soprattutto quella duramente anticattolica dei Paesi latini: dappertutto fu un pullulare di “Società per la cremazione”, molte delle quali ancora esistenti e tutte emanazione diretta delle Logge. Chi visiti, ad esempio, l’impianto per l’incenerimento del Monumentale di Milano, si trova di fronte a una esibizione di triangoli, squadre, compassi, fronde di acacia, stelle a cinque punte. Così, la Chiesa, pur ribadendo che «la cremazione, in se stessa, non contrasta con alcun dogma cattolico», ancora nel 1926 la definiva, con un decreto del Sant’Uffizio, «empia e scandalosa e quindi gravemente illecita». Pertanto, il Codice Canonico in vigore sino all’inizio del 1983 stabiliva che «chi ha disposto che il suo corpo sia bruciato, se prima di morire non ha dato qualche segno di pentimento, sia privato della sepoltura ecclesiastica».

Ecco, dunque, che le nuove norme non sono davvero “variazione” da poco e sembrano inquadrarsi in un progetto per rendere in tutto il cattolico “uno come gli altri”. Probabilmente, in certo clero non vi è più sufficiente consapevolezza dell’importanza che per tutti gli uomini - ma in modo particolarissimo per quelli religiosi - assumono i segni, i simboli e della necessità di questa simbologia per conservare l’identità, il senso di appartenenza a una comunità con la sua Tradizione, le sue regole, i suoi doveri, i suoi segni.
Non era ritorno al legalismo farisaico, ma preciso segnale di appartenenza, il tatto che il cattolico fosse anche uno che non mangiava carne il venerdì, che andava a messa la domenica, che si muoveva in processione in certi giorni, che in altri digiunava e che infine si faceva seppellire e non bruciare. Ora, nessuno ricorda più il precetto del “magro” e del “digiuno”; a Messa si può andare anche il sabato e non mancano teologi che bollano di “formalismo anacronistico” l’antico dovere di santificare le feste; le processioni (pure quella solennissima del Corpus Domini) non di rado sono abolite; il forno crematorio è lecito.
Come mostrano gli altri due monoteismi, quello ebraico e quello islamico, così ricchi di “regole” attentamente rispettate, la compattezza di una comunità religiosa passa anche attraverso il non essere, quando necessario, “come gli altri”. Forse, anche questa dimenticanza non è estranea a quella perdita di identità cattolica che gli stessi vescovi constatano allarmati. 

“Ad resurgendum cum Christo” seppellire i morti


La cura del corpo dei nostri defunti nel dare loro degna sepoltura si manifesta un tratto potente della fede nella risurrezione della carne

Noi cristiani crediamo che come Gesù è risorto anche noi risorgeremo nell’ultimo giorno: perciò la Chiesa ha sempre preferito l’inumazione dei defunti, cioè la sepoltura nella terra, quale segno di attesa della risurrezione finale.Il corpo che prova sete, fame e si ammala, alla fine tocca la soglia del suo limite estremo: la morte. Un tema dimenticato, a volte mediaticamente spettacolarizzato, esistenzialmente censurato. Il corpo morto giace esanime, misteriosamente senza più quella vita che poco prima lo faceva parlare, correre, incontrare gli altri, ridere e piangere, gioire o soffrire. Ora tutto tace, il corpo della persona defunta chiede raccoglimento e silenzio. Ecco emergere sul limitare della vita, l’ultima opera della misericordia, seppellire di morti. È l’unica opera che non attinge a Matteo 25, ma al Primo Testamento, a Tobia 1,17; 12,12s.

Questa tradizione trova il suo fondamento, non solo nel sentimento di pietà verso il defunto, presente in tanti popoli e in particolare in Israele, ma soprattutto nel fatto che Gesù stesso muore sulla croce, nella solitudine e nella nudità: il corpo della Parola, fatta silenzio, poiché si è detta “sino alla fine” (Gv 13,1), è accolto nelle braccia di Maria ai piedi della croce. A Giuseppe di Arimatea il compito della sepoltura. In quell’abbraccio tenero e doloroso, carico di memoria e di speranza, c’è anche il senso dell’ultima opera di misericordia.Non dimentichiamoci che Gesù non risorge subito; c’è un’ultima solidarietà di Cristo con noi: egli non solo condivide il morire, ma anche l’essere sepolto. È il mistero abissale del sabato santo: il rimanere nella morte di Colui è che la Vita.

Il Verbo si è fatto carne; l’opera più grande che egli ha compiuto è il dono del suo corpo, dato fino alla fine. Ora questo corpo, risorto, siede alla destra del Padre. Nella prospettiva luminosa della resurrezione ci prendiamo cura del corpo dei nostri defunti per dare loro degna sepoltura. In questa ultima cura si manifesta un tratto potente della fede nella risurrezione della carne. Il corpo non è mero strumento, mezzo, come un’auto usata da mandare al macero. È segno espressivo del mistero della persona. Da come ci si prende cura del corpo dei defunti per la sepoltura, si comprende anche il senso del corpo dei viventi. Seppellire i morti appare come gesto misericordioso carico di tenerezza e di profonda speranza.

La pratica dell’inumazione ci ricorda che siamo stati tratti dalla terra, alla quale ritorneremo: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai!» (cfr Genesi 2,7; 3,19; Siracide 17,1). Siamo, infatti, esseri fragili, destinati alla morte. Non porteremo con noi nulla di quanto abbiamo accumulato quaggiù, tranne l’amore che avremo donato. La Scrittura ci ricorda però che come Gesù, sepolto nella terra, è risuscitato dai morti, così anche noi risusciteremo con lui. Cristo è il chicco di grano che, caduto in terra, muore e così produce molto frutto (cfr Giovanni 12,24). Con la stessa immagine del seme, san Paolo spiega la nostra risurrezione finale: il nostro corpo «è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria» (1Corinzi 15,42-44). Ancora oggi, dunque, la forma di sepoltura preferita dai cristiani è l’inumazione.


"Ai fedeli defunti devono esser rese le esequie ecclesiastiche, a norma del diritto.


Le esequie ecclesiastiche, con le quali la Chiesa impetra il soccorso spirituale per i defunti e ne onora i corpi, e nello stesso tempo offre ai vivi il conforto della speranza, devono essere celebrate a norma delle leggi liturgiche.La Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti E’ la pia tradizione cristiana, che risale agli stessi tempi apostolici, d’inumare le spoglie mortali dei fedeli, affidandole alla terra, in attesa della risurrezione finale.La Chiesa è stata sempre contraria alla cremazione dei cadaveri.La cremazione venne condannata formalmente (can.1203, Codice 1917), e contro coloro che l’avessero disposta per il proprio cadavere fu comminata la privazione dei sacramenti e delle esequie ecclesiastiche (can. 1240, 1, n. 5, Codice 1917).1° Bisogna provvedere con ogni cura perchè, sia conservata religiosamente la consuetudine di seppellire i cadaveri dei fedeli. A tal fine, gli Ordinari, con opportune istruzioni e ammonimenti, cureranno che il popolo cristiano si astenga dalla cremazione dei cadaveri, e non receda, se non in casi di vera necessità , dalla inumazione, che la Chiesa ha sempre mantenuto, adornandola di riti particolarmente solenni ".

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