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lunedì 23 maggio 2016

Renzi sacro&santo! (Loggia dixit?)

La chiesa e il voto di ottobre

“La Costituzione non è sacra”. Civiltà Cattolica vota sì al referendum

Parla il giurista Francesco Occhetta: “La Carta è un testo vivente, anche Dossetti voleva il monocameralismo”

Il giurista e gesuita Francesco Occhetta
Roma. Il punto di partenza per ogni considerazione circa il referendum del prossimo ottobre che sancirà il destino della riforma costituzionale approvata dal Parlamento è che “la Carta è sì un testo vivente, una sorta di bussola che orienta il cammino di un popolo. Ma non è un testo sacro”. A dirlo in una conversazione con il Foglio è il gesuita Francesco Occhetta, il giurista che sull’ultimo numero di Civiltà Cattolica, la rivista diretta da padre Antonio Spadaro che viene mandata in stampa previo placet della Segreteria di stato vaticana, ha definito “auspicabile” il successo del voto d’autunno.
La Costituzione, spiega Occhetta, “accompagna l’evoluzione della cultura e respira del suo ossigeno. E’ per questo che intorno al testo della riforma il paese può incontrarsi su grandi domande, come ad esempio quali istituzioni consegneremo alle giovani generazioni, da dove ricominciare per rispondere alle sfide sociali che i costituenti non potevano prevedere”.

E ancora, se “sono scelte opportune il taglio di alcune spese, la riduzione dei parlamentari, il nuovo rapporto tra stato e regioni e lo snellimento per la formazione delle leggi”. Questa, aggiunge Francesco Occhetta, “è anche l’occasione per riscoprire e interpretare i princìpi e i diritti fondamentali della prima parte della Costituzione, che non vengono toccati dalla riforma. Nei territori, nelle scuole, nella vita delle tante associazioni il tema può aiutare a creare coesione sociale”. Certo, un rischio c’è, ed è quello di “politicizzare gli argomenti senza andare al testo della riorma, che riguarda l’ingegneria costituzionale. Si vota sulla Costituzione, non sul governo: per questo esistono le elezioni politiche”. Una responsabilità importante, sottolinea, “ce l’hanno i media, con il tipo di narrazione che costruiscono intorno alle riforme”. Uno dei punti più controversi circa il testo prodotto da un biennio di discussioni e rimpalli tra Camera e Senato è se esso sia coerente (ammesso che lo debba essere per forza) con il disegno pensato dai padri costituenti settant’anni fa.

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Il dibattito italiano sulla riforma della Carta va avanti da decenni, e a prevalere è sempre il fronte che perora la causa della sacralità del testo costituzionale attuale, e quindi della sua intangibilità. Civiltà Cattolica si smarca e sottolinea semmai la necessità di sviluppare la “cultura della manutenzione costituzionale”. Come a dire che ritoccare l’architettura istituzionale dello stato non è poi un dramma: “Della Carta rimangono i sacri princìpi che, attraverso un gioco di pesi e contrappesi, definiscono il valore madre della Costituzione, che è la ‘dignità umana’. Questa parte, che non è toccata dalla riforma – spiega il nostro interlocutore – è stata un vero evento di ‘coscienza civile’, che va difeso e tutelato”. Ma c’è un’altra faccia della moneta, la quale “dimostra che dal 1948 al 2012 le leggi di revisione costituzionale sono state quindici. A partire dal 1963, quella della Costituzione è una sorta di manutenzione, completamento e rafforzamento, sono stati ritoccati 41 articoli. E’ questo un dato che quasi nessuno ricorda.


L'aula del Senato della Repubblica (foto LaPresse)


Dal parificare la durata della Camera con quella del Senato (1963) alla riduzione da 12 a 9 anni del mandato dei membri della Corte costituzionale (1967), dal trasferimento della giurisdizione dei reati ministeriali dalla Corte alla magistratura ordinaria (1989) all’aumento della maggioranza dei due terzi per le leggi di amnistia e indulto (1992); dai princìpi del giusto processo (1999) alla votazione degli italiani all’estero (2000), fino alla revisione del titolo V nel 2001 e all’attuale revisione. Nessuna di queste modifiche ha mutato gli organi di garanzia (i poteri del presidente della Repubblica e della Corte) e il sistema di tipo parlamentare”. Eppure, ben 56 costituzionalisti e giuristi hanno firmato un manifesto contro la riforma, appellandosi affinché gli elettori respingano il progetto approvato dal Parlamento. Giorgio Napolitano, qualche settimana fa sul Corriere della Sera, si diceva assai dubbioso sul fatto che tutti i firmatari “siano d’accordo su come si sarebbe dovuta fare la riforma”.

Francesco Occhetta concorda, soprattutto quando osserva che se “i cinquantasei costituzionalisti sono nomi autorevoli e fanno dottrina, ce ne sono altrettanti, soprattutto quelli chiamati dal governo Letta, che pur rappresentando schieramenti politici diversi sostengono nel suo insieme la ragionevolezza della riforma”. Il “rischio”, però, “è che entrambe le posizioni esprimano un parere politico, mentre dai costituzionalisti il paese attende un parere tecnico che aiuti a pesare i pro e i contra del quesito referendario. Non c’è alcun costituzionalista che non voglia le riforme”, anche perché “il dibattito dura ormai da trent’anni” e – in risposta implicita a quanti chiedono una moltiplicazione delle schede, con la motivazione che il progetto di riordino va a toccare non solo la composizione del Senato, ma anche altri aspetti quale ad esempio il quorum per l’elezione del presidente della Repubblica – Occhetta spiega che “la riforma che viene presentata al paese non si può spacchettare”.

“Proprio perché la sovranità parlamentare e la sovranità popolare coincidono nell’istituzione del Parlamento, il voto del referendum serve a verificare se i cittadini concordano sulla scelta del Parlamento nel revisionare la Costituzione aggiornando la ‘meccanica costituzionale’. Come ho scritto nella Civiltà Cattolica – la cultura della ‘manutenzione costituzionale’ presente in tutte le costituzioni democratiche non sacralizza tutte le soluzioni adottate nella riforma: può comunque consentire, in caso di auspicabile successo del referendum, successive modifiche migliorative che tengano conto delle critiche più motivate. Ma la scelta, prima che politica, è culturale”.
di Matteo Matzuzzi | 20 Maggio 2016 

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