Come l'Ordine rieduca i professionisti dei media
di Andrea Lavelli e Caterina Vitale
Premessa d’obbligo:
dallo scorso anno i giornalisti sono alle prese con l’ansia da
formazione. L’Ordine dei Giornalisti infatti, dal 2014, recependo una
direttiva europea, ha istituito l’obbligo per tutti gli iscritti –
professionisti, praticanti e pubblicisti – di partecipare a corsi di
formazione e maturare relativi crediti nell’arco di tre anni, pena
sanzioni da parte dello stesso Ordine.
Sui corsi in questione è già stato scritto di tutto e di più, ai
non addetti ai lavori basti sapere che si tratta di lezioni spesso
tenute in orari di lavoro, alcune a pagamento e che quando è stata
aperta la piattaforma on line per l’iscrizione c’è stata una specie di
sollevazione per la presenza di liste a numero chiuso che limitavano
fortemente le opzioni di scelta. Ma i crediti sono obbligatori, quindi
ci si arrangia come si può. E ci si iscrive dove capita, dove c’è posto.
Per intenderci il caporedattore di una rivista che si occupa, ad
esempio, di spettacoli, per questioni di orari lavorativi, di liste e di
coincidenze varie potrebbe trovarsi obbligato a frequentare lezioni dal
titolo "Il settore dell'acqua: la nuova regolazione dei servizi idrici,
problemi e prospettive".
Nelle opzioni possibili qualche tempo fa è comparso un corso dal
titolo “Il diritto di essere omosessuale”. Data 12 maggio 2015, docente
Marilisa D’Amico, crediti 2, luogo via Festa del Perdono, ovvero
all’Università Statale di Milano. Marilisa D’Amico è docente di Diritto
costituzionale alla Statale, è Coordinatore della Sezione di Diritto
Costituzionale ed è titolare di uno studio legale che si occupa di
diritti contesi, specializzato, si legge sul suo sito, nel far valere i
profili di illegittimità costituzionale, di violazione della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo e della Carta Sociale Europea. Componente
della direzione nazionale del Pd, ha collaborato con lo staff del
sindaco Pisapia per l’elaborazione del registro sulle unioni civili ed è
stata ascoltata da poco in Commissione Giustizia al Senato durante
l’elaborazione del ddl sulle “unioni civili” (il cosiddetto ddl
Cirinnà).
Collabora con la Rete Lenford, avvocatura per i diritti LGBT,
è stata tra i primi studiosi di diritto costituzionale ad occuparsi di
pari opportunità e di discriminazioni di genere: oggi è una dei maggiori
giuristi in Italia a portare avanti le istanze del cosiddetto mondo
LGBT. Infine è responsabile scientifico del laboratorio “Omosessualità,
un mondo nel mondo”, promosso da Gaystatale,
“un gruppo politico e apartitico che riunisce gli studenti LGBT
dell'Università degli Studi di Milano”. Proprio il penultimo
appuntamento di questa iniziativa è stato proposto dall’Ordine come
corso formativo per i giornalisti iscritti agli Albi.
Si tratta di un ciclo di 10 incontri tutti incentrati sulle tematiche dell’omosessualità.
Sarebbe interessate capire chi e in base a cosa ha ritenuto inserire
questa lezione (e la successiva, “Omosessualità e Lavoro”, poi
cancellata, almeno per i giornalisti) nelle possibilità di formazione
obbligatoria per i giornalisti, e per quale ragione. Il pensiero non può
non andare alle «Linee guida per un’informazione rispettosa delle
persone LGBT» emanate nel 2013 e di cui La Nuova Bussola Quotidiana aveva
a suo tempo parlato denunciando l’ennesimo tentativo di indottrinare
chi per professione dovrebbe solo raccontar la verità.
E proprio per amore di verità, siamo andati a sentire di cosa si trattava.
Si parte dall’assunto che essere omosessuali in Italia oggi significa
“mancanza di tutela e rispetto. E mancanza di tutela è il modo in cui la
società ancora considera le tematiche legate all’omosessualità. È un
tradimento profondo della nostra Costituzione”. Sono le parole della
stessa Marilisa D’Amico che quando parla di tradimento della Carta si
riferisce in particolare all’attuale stallo del provvedimento sulle
unioni civili, subissato di emendamenti, oltre 4000, in Parlamento.
E allora che fare? “Laddove
non arriva la politica – spiega – in parte possono arrivare i giudici.
Se c’è discriminazione possiamo studiare come giuristi il modo di
portare davanti a un giudice questa discriminazione. Se un diritto viene
riconosciuto da un giudice può darsi che questa sia la strada poi per
un riconoscimento più generale”.
Proprio quello che ha fatto Rete Lenford,
“un gruppo di avvocati che difendono i diritti delle persone
omosessuali, che ha fatto una campagna per un’azione civile sul
matrimonio ugualitario”. Ma in che modo? La strategia è semplice: “per
andare davanti ai giudici è importante che ci siano persone che ci
mettano la faccia”. Così “sono state raggiunte coppie omosessuali in
tutta Italia e ci si è detti: se invece di un ricorso [alla Corte
Costituzionale] ne facciamo tanti avremo più forza di fronte alla
Corte”. E infatti “davanti alla Corte sono state sollevate alcune
questioni e nel 2010 è stata emessa una sentenza” che sollecita di fatto
il nostro ordinamento giuridico ad approvare una norma generale su
questo tema. “Su questa decisione si basa il testo Cirinnà che parla di
unioni civili”.
Alcuni forse già si rassereneranno, pensando che in fondo non
si parla di matrimonio, ma di “unioni civili”… ma cosa sono esattamente
queste “unioni civili”? Marilisa D’Amico lo spiega benissimo: “È un
matrimonio con un nome diverso perché nel modo in cui è disciplinato è
esattamente un istituto che, tranne sull’adozione, comporta gli stessi
diritti e gli stessi doveri delle coppie sposate. Anzi la cosa
interessante è che in questo disegno di legge si rinvia alla disciplina
civilistica del matrimonio. Per la regolarizzazione dei diritti e doveri
dei componenti dell’unione civile e poi è stato fatto un elenco, perché
volevano togliere dei diritti, poi non si sono resi conto che in realtà
li han messi dentro tutti”.
Quanto all’adozione, che nel Cirinnà manca (sebbene
ci sia l’introduzione dell’istituto della Stepchild adoption che
permette l’adozione del figlio di uno dei due partner da parte
dell’altro componente della coppia dello stesso sesso) la D’Amico
conferma la strategia: “Sono convinta che se facciamo una causa su
questo la vinciamo, e vale anche per la pensione di reversibilità: non
bisogna mollare sugli aspetti specifici”.
Un accenno anche ai registri delle Unioni civili contratte
all’estero, che ultimamente spopolano tra i sindaci arcobaleno: “È una
vittoria, ma è un provvedimento limitato, ha un valore simbolico,”
spiega la professoressa. “La battaglia politica è sacrosanta, ma il
problema è che queste coppie purtroppo non hanno più diritti di altri
perché giuridicamente ancora non abbiamo questo riconoscimento. Esiste
una natura legislativa che non può essere sopperita dalla buona volontà
dei sindaci e neanche dei giudici”.
Ecco allora che i giornalisti presenti in sala hanno
potuto apprendere una preziosa lezione, anzi due: innanzitutto se il
popolo e i suoi rappresentanti non condividono la battaglia per il
matrimonio per tutti, è necessario forzare la mano con lo strumento
giudiziario e poi, attenzione… “aldilà delle nostre battaglie la cosa
più importante è fare cultura, perché se non si riesce a cambiare
profondamente il modo di capire certi temi e a scardinare una serie di
pregiudizi incomprensibili, non andremo da nessuna parte.” spiega la
D’Amico.
E che dire di tutti coloro che in Italia credono nei valori della famiglia? “Il
valore della famiglia tradizionale è un valore per chi ha una bella
famiglia, ma che sia un valore in sé, francamente non credo lo credano
in molti, non ci crede più nessuno,” spiega la D’Amico. E parlando della
difficoltà a ottenere riconoscimento giuridico per le coppie dello
stesso sesso e del ddl Scalfarotto fermo in Parlamento: “Sotto certi
aspetti viviamo in una società che è ancora fortemente arretrata e
quindi noi tutti dobbiamo impegnarci per cambiare le cose. Noi abbiamo
una politica che è così perché purtroppo riflette una società che è
ancora molto indietro e sulla quale dobbiamo assolutamente lavorare”.
È davvero incredibile sentire queste affermazioni a
un corso indicato come formativo per i giornalisti. Qui comunque la
professoressa cade in una contraddizione lampante: da una parte infatti
dichiara che ormai nella famiglia naturale “non ci crede più nessuno,”
mentre dall’altra afferma che la società italiana deve essere oggetto di
un lavoro culturale perché non vuole modellare le leggi e la famiglia
in base alle rivendicazioni LGBT. Delle due, quale?
Il tranello è sempre lo stesso e
bisogna stare bene attenti a non caderci: come abbiamo visto, questi
progetti vengono portati avanti da una piccola minoranza di attivisti
che mirano a ribaltare le leggi usando la giurisprudenza, mentre il
popolo della famiglia è silenzioso, ma numeroso e maggioritario (vedi le
grandi manifestazioni delle Sentinelle e de La Manif). La loro tattica è
proprio quella di convincerci che siamo soli, che siamo rimasti in
pochi a credere nella famiglia, quando in realtà sanno che è esattamente
il contrario.
Ma qui sorge una domanda fondamentale:
questo era un corso di formazione o un momento di propaganda? “Noi
tutti dobbiamo impegnarci a cambiare le cose”, così si conclude il
corso, e non c’è affermazione più vera. Ecco perché abbiamo voluto
raccontare questa storia, ed ecco perché il popolo della famiglia non
solo adesso ha la coscienza vigile e a imparato a riconoscere le
tattiche LGBT, ma ha anche capito che per contrastarle basta alzare una
mano, rompere il silenzio, superare la paura, prendere posizione. Ci
renderemo conto che non siamo soli.