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lunedì 4 novembre 2013

Scolari e maestri (?)

Famiglie d’oggi. I piatti rotti del Forteto

forteto
A far traballare la famiglia, oggi, non sono “i piatti che volano”. C’è enormemente di più. È l’istituto famigliare stesso che è sotto attacco. Si prevede che il sinodo dei vescovi convocato l’anno prossimo rifletterà a fondo sul terremoto antropologico in atto.
Intanto, tra i molti spunti di riflessione in materia, ce n’è uno che arriva da Firenze, nella scia di quello sconvolgente rapporto d’indagine sulla comunità del Forteto che la Regione Toscana ha pubblicato all’inizio di quest’anno e di cui Settimo Cielo ha già dato notizia:

In questa comunità, per decenni osannata dall’intelligenza progressista cattolica e laica, è accaduto che anche dopo che il suo leader Rodolfo Fiesoli era stato condannato per abusi sessuali ed altri reati connessi, il tribunale ha continuato ad affidare dei minori alle “famiglie funzionali” di questa stessa comunità, giudicate adatte ad accoglierli.
C’è voluto “Il Covile”, il raffinato blog fiorentino creato e diretto da Stefano Borselli, perché sulla vicenda si alzasse il velo e la Regione Toscana producesse il suo rapporto, votato all’unanimità.
Ed è ancora su “Il Covile” che la riflessione prosegue. Eccone un estratto di grande interesse, ripreso dall’ultimo degli interventi pubblicati.
*
IL FORTETO, VICENDA ESEMPLARE
di Armando Ermini
“Come è stato possibile che sia successo quanto abbiamo ascoltato? Come è potuto accadere?”, si chiede la Relazione finale della “Commissione d’inchiesta sull’affidamento dei minori” della Regione Toscana, istituita in seguito all’emergere pubblico della vicenda Forteto, e approvata all’unanimità nella seduta dell’8 gennaio 2013.
Al punto 8.2 della Relazione, si elencano i riferimenti normativi regionali che “fanno da cornice all’Istituto dell’affidamento dei minori”. Scorrendoli, la prima cosa che balza agli occhi è l’insistenza sul termine “famiglia”: associazioni familiari, comunità familiari, sostegno alla famiglia, politiche per la famiglia, affidamento familiare, servizi per la tutela del minore fuori dalla sua famiglia d’origine, e via discorrendo.
Il concetto di famiglia è dunque posto al centro di tutto il sistema normativo che intende tutelare i minori.
Ora, se c’è una cosa chiara fin da subito, è l’odio totale per la famiglia nutrito dai leader della comunità del Forteto. Si faceva in modo che i ragazzi affidati non avessero più alcun contatto con la famiglia d’origine, si faceva loro credere di essere stati abbandonati nel più completo disinteresse, si incentivava in loro ogni tipo di rancore e di rivalsa affinché ogni ponte col passato fosse tagliato.
Quanto poi ai rapporti all’interno della comunità, le coppie affidatarie erano in realtà composte da estranei privi di legami affettivi fra di loro. E anche quando nella comunità ne nasceva uno, vi era l’assoluto divieto di costruire qualsiasi simulacro di vita di coppia. I rapporti eterosessuali erano osteggiati in ogni modo, e fra maschi e femmine esisteva una separazione assoluta. La così detta “famiglia funzionale”, geniale invenzione di Rodolfo Fiesoli, poteva significare qualsiasi cosa ma non aveva nulla a che fare con la famiglia naturale e nemmeno con un suo qualsiasi surrogato.
Perché, allora, i giudici deliberavano di affidare i bambini alle “non coppie” del Forteto? Perché i servizi sociali indicavano come affidabili queste “non coppie”? Perché per giornalisti, scrittori, sindacalisti, politici, preti, il sistema Forteto era additato come esempio? Perché la Regione Toscana lo favoriva in ogni modo?
La risposta, credo, può essere una sola. Se non direttamente l’odio del Forteto per la famiglia, quantomeno era condivisa la concezione secondo la quale la famiglia naturale era il problema, un luogo di oppressione destinato ad essere soppiantato da altre forme di aggregazione fra individui, o comunque un istituto da modificare in profondità nel suo significato tradizionale.
Leggiamo nella Relazione della commissione d’inchiesta:
“Solo questo pregiudizio può spiegare l’incredibile serie di omissioni che hanno consentito quegli accadimenti. Si può affermare che il concetto di ‘famiglia funzionale’ si basa sul presupposto per cui la coppia e la famiglia comunemente intese rappresentano luogo di egoismo e ipocrisia inadeguato all’educazione dei giovani ai valori di uguaglianza, altruismo e solidarietà. Solo disaggregando l’unità familiare, secondo quanto asserito da Fiesoli e recepito dai componenti della comunità, ci può essere il perseguimento di tali valori”.
Ci avviciniamo così al cuore del problema che non è politico o giudiziario, ma culturale.
Penso che, abbandonate le punte più dichiaratamente estreme e per questo indigeribili, quelle idee siano entrate in gran parte nel bagaglio culturale condiviso della modernità, fra i laici ma anche fra molti cattolici. Non potendo prendere di petto il problema, si è agito per linee interne, svuotando il contenitore-parola del suo significato tradizionale e riempiendolo di significati diversi o opposti.
La dissimulazione linguistica è una strategia molto diffusa per occultare, e quindi normalizzare nell’immaginario collettivo, concetti e pratiche che altrimenti troverebbero una forte opposizione. Si parla, ad esempio, di “tutela sociale della maternità consapevole” per contrabbandare il diritto di abortire liberamente.
Tornando al nostro tema, cosa intendono, oggi e non ieri, la Regione Toscana oppure la corte di Cassazione, col termine “famiglia”? Quello tradizionale di unione potenzialmente feconda fra un uomo e una donna, e per questo socialmente riconosciuta anche come entità educativa primaria composta da un padre e una madre, oppure una qualsiasi unione di due soggetti indifferente al sesso d’appartenenza?
È del tutto evidente che l’allargamento del concetto di famiglia non solo cambia la sua natura, ma comporta esiti ineluttabili rispetto al rapporto coi figli. Se famiglia è anche quella fra due persone dello stesso sesso, non esiste un solo motivo per negare le adozioni ai gay oppure per continuare a parlare di padre e madre, i cui compiti e funzioni diventano intercambiabili ed esercitabili da qualsiasi persona di ‹buona volontà›.
Ne discende che il termine “famiglia” o “familiare” citato in una legge o in una norma, non ha più un significato immediatamente percepibile e condiviso. In sua mancanza si aprono perciò autostrade ad interpretazioni soggettive, magari con la scusa di adeguarsi alle mutate sensibilità dei tempi attuali. È ciò che, in definitiva, è accaduto col Forteto. Ed è ciò che potrebbe ripetersi anche con le nuove più stringenti normative se alle loro fondamenta non esiste una riflessione culturale davvero approfondita.
Ciò che intendo sostenere non è, certamente, che i soggetti istituzionali implicati nella vicenda del Forteto o che i personaggi che a vario titolo lo hanno favorito, condividessero le regole occulte e tantomeno le pratiche di quella comunità, ma che ci fosse quantomeno simpatia per i principi dai quali sono discese, sia pure come variabile impazzita, quelle regole e quelle pratiche. È su questo che siamo chiamati ad una riflessione, prima ancora che sulle norme di legge.
Bene ha fatto, a questo proposito, Stefano Borselli quando ha ricordato le analogie con la gnosi catara. In effetti le analogie ci sono, e impressionanti. Sul piano dei principi, al Forteto come fra i Catari si disprezzavano la materia e la carne intesi come rapporti eterosessuali.
Leggiamo sempre nella Relazione:
“Al Forteto l’omosessualità era non solo permessa ma addirittura incentivata, un percorso obbligato verso quella che Fiesoli definiva ‘liberazione dalla materialità’. L’amore riconosciuto e accettato, l’amore vero, alto e nobile era solo quello con lo stesso sesso. Il bene e l’amore vero erano quelli di tipo omosessuale, perché lì non c’è materia”.
Così che in nome della purezza spirituale le pratiche omosessuali diventavano terapeutiche.

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