ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 8 giugno 2014

Non solo Bertone..

LE SCOPERTE DI PADRE CARLO CRESPI E GLI ARTEFATTI CHE FANNO TRABALLARE L’ARCHEOLOGIA CONVENZIONALE

La storia di Padre Crespi è una delle più enigmatiche mai raccontate: una civiltà sconosciuta, manufatti incredibili, enormi quantità d'oro, simboli appartenenti ad una lingua sconosciuta e strane rappresentazioni che collegano l'America Precolombiana agli antichi Sumeri. La cronaca degli eventi, e il modo in cui sono stati trattati, secondo molti rivela ancora una volta una cospirazione per nascondere la verità sulla storia dell'umanità.
padre crespi
Padre Carlo Crespi nacque a Milano nel 1891 e morì nel 1982.
E’ stato un prete missionario salesiano che ha vissuto nella piccola città di Cuenca, in Ecuador, per più di 50 anni, dedicando la sua vita al culto e alle opere di carità.

Il religioso era una persona dai molti talenti: è stato educatore, botanico, antropologo, musicista, ma soprattutto un grande umanista.
Nel 1927, la sua vocazione missionaria lo ha portato a vivere fianco a fianco con gli indigeni ecuadoregni, facendosi carico degli indigeni e conquistandosi il rispetto della tribù dei Jibaro, i quali cominciarono a considerarlo come un vero amico.
Come segno di riconoscenza, nel corso dei decenni gli indigeni hanno donato a Padre Crespi centinaia di manufatti archeologici risalenti ad un’epoca sconosciuta, spiegando che si trattava di oggetti trovati in un tunnel sotterraneo che si trovava nella giungla dell’Ecuador. Molti di essi erano in oro, intagliati con geroglifici di una lingua sconosciuta e che ancora oggi nessuno è stato in grado di decifrare.
Gli oggetti erano stati recuperati dagli indios in una caverna molto profonda, detta in spagnolo Cueva de los Tayos, posizionata nella regione amazzonica conosciuta come Morona Santiago. La grotta, che si trova a circa 800 metri sul livello del mare, fu chiamata Tayos a causa dei caratteristici uccelli quasi ciechi che vivono nelle sue profondità.
Essendo un uomo di cultura, Padre Crespi presto si rese conto che gli straordinari manufatti presentavano inquietanti analogie con l’iconografia delle antiche civiltà mesopotamiche, suggerendo un qualche collegamento tra culture sviluppatesi su versati opposti del pianeta.
Come riporta Yuri Leveratto nel suo approfondito resoconto, Crespi era convinto che le lamine e le placche d’oro a lui donate, e da lui studiate, indicassero senza ombra di dubbio che il mondo antico medio-orientale antecedente al diluvio universale fosse in contatto con le civiltà che si erano sviluppate nel Nuovo Mondo, già presenti in America a partire da sessanta millenni fa.
Secondo Padre Crespi, gli arcaici segni geroglifici che erano stati incisi, o forse pressati con degli stampi, non erano altro che la lingua madre dell’umanità, l’idioma che si parlava prima del diluvio universale. Nella sua ingenuità di uomo di fede e di cultura, il religioso non si rese conto che le sue idee mettevano fortemente in discussione le teorie consolidate dell’archeologia convenzionale (ufficiale).
Visto che i manufatti donatigli avevano formato una collezione di oggetti davvero numerosa, nel 1960 Crespi chiese e ottenne dal Vaticano l’autorizzazione per creare un museo nella missione salesiana di Cuenca.
Quello di Cuenca è stato il più grande museo che sia mai stato creato in Ecuador, almeno fino al 1962, quando un misterioso incendio distrusse completamente la struttura, e la maggior parte dei reperti fu perduta per sempre. Tuttavia, Crespi pare sia riuscito a salvare alcuni pezzi nascondendoli in un luogo a lui solo noto.
Nel 1969, Juan Moricz, un ricercatore ungherese naturalizzato argentino, esplorò a fondo la caverna, trovando molte lamine d’oro che riportavano delle incisioni arcaiche simili a geroglifici, statue antiche di stile mediorientale, e altri numerosi oggetti d’oro, argento e bronzo: scettri, elmi, dischi, placche. Fu Crespi ad indicare a Moricz come entrare nella caverna e come trovare la giusta via nel labirinto senza fondo situato nelle sue profondità.
Nel 1972, fu lo scrittore svedese Erik Von Daniken a diffondere la notizia del ritrovamento del ricercatore ungherese. Quando la notizia dello strano ritrovamento di Moricz si sparse nel mondo, molti studiosi decisero di esplorare la caverna con spedizioni private.
Una delle prime e più ardite spedizioni fu quella condotta nel 1976 dal ricercatore scozzese Stanley Hall alla quale partecipò l’astronauta statunitense Neil Armstrong, il primo uomo che mise piede nella Luna, il 21 luglio 1969. Si narra che l’astronauta riferì che i tre giorni nei quali rimase all’interno della grotta furono ancora più significativi del suo leggendario viaggio sulla Luna.
Verso la fine degli anni ’70, Gabriele D’Annunzio Baraldi visitò a lungo Cuenca, dove conobbe sia Carlo Crespi che Juan Moricz. In quell’occasione Carlo Crespi confidò all’italo-brasiliano che la Cueva de los Tayos era senza fondo e che le migliaia di diramazioni sotterranee non erano naturali, ma bensì costruite dall’uomo nel passato.
Secondo Crespi la maggioranza dei reperti che gli indigeni gli consegnavano provenivano da una grande piramide sotterranea, situata in una località segreta. Il religioso italiano confessò poi a Baraldi che, per timore di futuri saccheggi, ordinò agli indigeni di coprire interamente di terra detta piramide, in modo che nessuno potesse mai più trovarla.
Baraldi notò che in molte placche e lamine d’oro erano ricorrenti vari segni: il sole, la piramide, il serpente, l’elefante. In particolare la placca dove venne incisa una piramide con un sole nella sua sommità venne interpretata da Baraldi come una gigantesca eruzione vulcanica che avvenne in epoche remote.
Quando Carlo Crespi morì, nell’aprile del 1982, la sua fantasmagorica collezione d’arte antidiluviana fu sigillata per sempre, e nessuno poté mai più ammirarla. Vi sono molte voci sulla sorte dei preziosissimi reperti raccolti pazientemente dal religioso milanese. Secondo alcuni furono semplicemente inviati in segreto a Roma, e giacerebbero ancora adesso in qualche caveau del Vaticano.
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Molti archeologi convenzionali hanno accusato Padre Crespi di essere un impostore o semplicemente un visionario, il quale ha spacciato come autentiche delle lamine d’oro che erano semplicemente dei falsi o delle copie di manufatti medio-orientali. Ma a prescindere dalle accuse dell’establishment archeologico, restano le fotografie e le numerose testimonianze di molti studiosi a prova della loro veridicità.
Come scrive Leveratto nel suo articolo, l’impressione che si ha a leggere questa vicenda è che qualcuno abbia voluto occultare i fantastici pezzi archeologici collezionati e studiati dal religioso milanese. Ma perché? Eppure, come hanno dimostrato gli studi di Richard Cassaro, i paralleli tra le culture mesopotamiche e quelle precolombiane sono palesemente evidenti.
Perchè gli archeologi di epoca vittoriana ritenevano pacifica l’esistenza di una cultura madre antecedente che avrebbe poi generato culture figlie con lo stesso sistema iconografico, simbolico e religioso? E perchè oggi questa ipotesi è avversata ferocemente da archeologi militanti che negano a tutti i costi questa possibilità? Perchè non ricercare pacificamente? Quale valenza avrebbe per l’umanità sapere che discendiamo da un unica, avanzata civiltà globale antidiluviana?

Arrivava a confessarne spesso anche  tre alla volta, di penitenti: seduto nel confessionale per un tempo infinito, di giorno e di notte,  la stola violacea sulle spalle, in mano la corona del Rosario che continuava a sgranare,  prestava orecchio attento e paziente alle parole sussurrate, attraverso le grate regolamentari, da  due donne, l’una a sinistra e l’altra a destra, e  da un uomo, ritto invece davanti a lui. Contemporaneamente. Ascoltava confessava assolveva benediva in serie, verrebbe da  dire, e a ritmi supersonici. Come facesse, non si sa.
E’ ben vero, tuttavia, che, conoscendo i suoi … polli, diceva  a qualcuno, prima che prendesse posto,  di mettersi da parte e lasciar confessare  gli altri, poi  ascoltava  lui solo. 
Fatto sta, comunque, che era a richiestissimo, da persone di ogni categoria, inclusi prelati, per il suo stile sobrio, ma carico di umanità, bontà e tenerezza,  e così passava  ore e ore – anche 16 di fila, senza toccar cibo - a confessare: il legno dell’inginocchiatoio del suo confessionale, dato il gran numero di penitenti che vi si inginocchiavano, era talmente logoro e consumato che  si era formata una sorta di buco, di cunetta.
Ma non era quella soltanto l’unica stranezza di questo straordinario personaggio, geniale e intelligentissimo, colto e insieme semplice, dalla vita spartana e frugale, ma soprattutto di una bontà, generosità e disponibilità disarmanti.
Un carattere comunque forte, il suo, avvezzo al comando. Basta un aneddoto: “Alle cinque in punto inizierai a recitare il Rosario” – aveva detto un giorno a un chierico, e quest’ultimo si era affrettato ad ubbidire, in perfetto orario, anche se in chiesa, in quel momento, lui, don Carlo Crespi, non era ancora arrivato.  Che tuttavia,   una volta giunto  sul posto, non si fece scrupoli a rimproverarlo: “Perché hai cominciato?”  “Ma padre, mi aveva detto alle cinque in punto”- si giustificò il chierico. E lui allora, deciso, di rimando:  “Perbacco, il punto lo metto io!”
Ecco, era fatto così, don Carlo Crespi Croci, nato a Legnano il 29 maggio 1891 da Daniele, fattore della più vasta tenuta agricola della zona,  e da Luisa Croci, terzo di tredici figli.

LA FORMAZIONE

Ha  dodici anni, Carlo, quando incontra i salesiani presso il Collegio Sant’Ambrogio di Milano, dove completa gli studi ginnasiali.
“Quando studiavo al Collegio – ricorderà lui stesso – la Vergine mi mostrò un sogno rivelatore : mi vidi vestito da sacerdote con una lunga barba sopra un vecchio pulpito, mentre predicavo di fronte a tanta gente. Il pulpito però non sembrava una chiesa, ma una capanna …”
Frequenta quindi il liceo salesiano di Valsalice, e si sente chiamato alla vita religiosa. Emetterà la professione perpetua nel 1910 e verrà ordinato sacerdote nel 1917. Compie studi di filosofia e teologia, ma anche di scienze naturali, matematica e musica, materie che insegnerà a Padova e a Verona, e, sempre assecondando i molteplici  interessi della sua mente poliedrica, segue anche corsi di ingegneria e idraulica.
Diventerà, tra l’altro, un grande pianista e un esperto compositore.
All’università di Padova scopre poi  l’esistenza di un microorganismo fino ad allora sconosciuto, destando l’interesse del mondo scientifico.
Come soldato, partecipa per un breve periodo alla prima guerra mondiale.
Ma la sua strada è quella che gli ha indicato, nella visione, la Vergine Maria: diventare missionario. 
Suo campo di missione sarà allora l’Ecuador, sia per preparare il materiale necessario a partecipare alla grande Esposizione Missionaria Vaticana dell’anno santo 1925 e a quella salesiana di Torino, sia anche e soprattutto per mettere in opera un vasto piano di azione missionaria in quella terra.
Infatti, prima di partire, don Carlo scrive a un suo superiore: ”Ora vorrei una parola che mi assicuri che la mia povera opera sarà veramente spesa tra i Kivari (o Shuar,popolazione autoctona, che vive nella foresta amazzonica), perché solo per loro ho tenuto tante conferenze … Lascio la famiglia, lascio la patria, lascio soprattutto splendidi ideali musicale e scientifici, soltanto per seguire la fortissima vocazione …”

UOMO DI STUDIO

Così, il 24 marzo 1923, nel porto di Genova, l’attenzione di tutti  era richiamata da un giovane sacerdote, don Carlo appunto, che andava e veniva irrequieto per far caricare sul vapore una sessantina di grosse casse destinate alle missioni salesiane dell’Ecuador. Dal contenuto, queste casse,  quanto mai vario: macchine fotografiche e cinematografiche, da presa, proiettori, una macchina “grafofono”per scrivere la lingua degli indigeni, e poi teodoliti, pluviometri, bussole, arnesi vari da lavoro, medicine, vestiti … e tanto altro ancora .
Ma la ricchezza e la carica maggiore le portava dentro di sé lo stesso don Carlo, per il suo carattere vulcanico, dalla dinamica urgente e travolgente, e per la sua eccezionale  volontà e  capacità di agire.
Sbarcato a Guayaquil, don Crespi si diresse a Quito e subito dopo a Cuenca, dove rimarrà  per tutta la vita.
In pochi mesi, da scienziato e naturalista qual era,  si dedicò a formare  una importante collezione di oltre 600 esemplari di felci, scoprendo nuove specie che da lui presero il nome di “Crespiane”.
E presto, con una ventina di portatori, si addentrò nel folto della foresta amazzonica, impervia e millenaria, visitando centri missionari, e capanne di indigeni sparse a lunga distanza nel groviglio della giungla, passando interminabili giornate a piedi, irte di rischi, attraversando fiumi impetuosi su tronchi d’albero scanalati, alloggiando in capanne improvvisate con rami e foglie, o dormendo in quelle degli indigeni sul nudo suolo o su stuoie, sotto il sole tropicale e le piogge torrenziali.  Suo intento era quello di studiare usi, costumi, cultura e lingua degli Shuar, filmando, per la prima volta in tutta la regione, il loro modo di vivere e molte delle innumerevoli meraviglie della foresta amazzonica, per raccogliere materiale per l’Esposizione.
Si recherà, l’anno seguente, con le sue pellicole, negli Stati Uniti, dove , nell’università di Columbia, prenderà parte attiva a un convegno di famosi naturalisti e glottologi e sarà nominato Membro dell’Istituto Interamericano, per i suoi apporti e meriti scientifici.
Si recherà anche a Roma, all’Esposizione Missionaria, portando, dalle missioni salesiane, numerosi pezzi e non pochi animali della foresta, vivi, in gabbie sulle quali una targhetta indicava il mittente, per così dire, cioè i Salesiani appunto, che quegli animali avevano spedito per nave. Don Crespi ricordò poi  per tutta la vita, ridendone  di gusto, che la gente che usciva dall’ambiente dell’Esposizione, a cui partecipavano molte altre congregazioni missionarie, commentava ammirata:
“Bestie come i Salesiani, nessuno!” 
 A don Carlo  si deve anche un importante Museo Archeologico, frutto di audacia e costanza, ricco di  favolosi pezzi risalenti a un’epoca sconosciuta, che gli Shuar, dei quali  si era conquistato la fiducia, gli avevano consegnato nel corso di decenni: statuette, oggetti d’oro o laminati d’oro, d’argento e bronzo, scettri, elmi, dischi, placche, spesso intagliati magistralmente con arcaici geroglifici che, a tutt’oggi, nessuno ha saputo decifrare. Tanti reperti, insomma, di culture precolombiane di varie provincie dell’Ecuador, che fecero del Museo la meta di innumerevoli turisti e scienziati (anche se non tutto – va riconosciuto – era autentico, per l’inganno in cui talvolta cadde padre Crespi, ad opera di imbroglioni, che, approfittando della sua fiducia e buona fede, lo convinsero a scambiare pezzi autentici della sua collezione con altri, di nessun valore).
Al Museo Archeologico si aggiunse anche una pinacoteca di opere di diverse epoche e scuole dell’Ecuador e dell’Europa.

APOSTOLO DEI POVERI

Pensava e progettava in grande, don Carlo, anche e soprattutto in campo missionario e di apostolato, con una dinamica rivoluzionaria, con programmi ambiziosi per le scuole, per l’agricoltura, per una colonizzazione disciplinata ed efficace.
Un lavoro enorme, sempre in favore dei poveri: fece installare a Macas, in piena foresta amazzonica, la luce elettrica, vi portò una macchina e attrezzi di falegnameria e meccanica,  quasi tutto trasportato a spalla lungo un tragitto di oltre 150 chilometri.
Aprì una scuola agricola a Cuenca, facendo arrivare dall’Italia macchinari e personale specializzato. Organizzò anche laboratori di taglio e cucito per le ragazze misere della città.
E in poco tempo, come per incanto, attuò quella che venne definita la revoluciòn blanca in campo scolastico e culturale: per volontà e merito suo sorsero infatti il Normal Orientalista, il Collegio Tecnico, la Quinta Agronomica, Il Teatro salesiano, la Gran Casa della Comunità, e in particolare l’Istituto “Cornelio Merchàn”, grandioso edificio per le scuole  elementari e professionali per alunni poveri.
Per questi ragazzi del popolo, don Crespi era un vero padre: ogni mattina i più bisognosi ricevevano anche la colazione, a volte pure il vestito. In varie occasioni don Carlo utilizzò la tela donatagli da qualche benefattrice per una nuova tonaca, in sostituzione di quella, ormai troppo logora, che portava, per ricavarne invece alcuni pezzi per pantaloncini. Del resto, era sempre in mezzo ai poveri, facendo catechismo ai ragazzi di strada, la domenica pomeriggio, e dando loro, oltre al divertimento, il pane quotidiano.
Quando si muoveva tra gli allievi della sua grande Scuola Merchàn o nell’affollatissimo oratorio festivo, aveva sempre una mano piena di caramelle, che distribuiva a chi gli veniva a tiro, mentre nell’altra reggeva una piccola campanella, con cui richiamava l’attenzione e che, con frequenza, batteva leggermente in testa al ragazzo interessato. Alla sua morte, un giornalista di Cuenca ha scritto: “Chi di noi non ha ricevuto da don Crespi una carezza, una caramella e … un colpo di campanello in testa?”
Una banda musicale con 150 strumenti animava le sfilate religiose e patriottiche, l’oratorio riempiva di felice chiasso il cortile dell’istituto, ogni domenica. La filodrammatica e il cinematografo, poi,  erano attesi con ansia nei giorni festivi dai ragazzi delle strade: insomma, con padre Crespi tutto si  tramutava in sana  allegria, specialmente nella vita dei piccoli, che erano la sua ragione di essere. Secondo la regola di san Francesco di Sales: “Fare il bene e farlo con gioia è un doppio bene”. E la domenica aveva luogo anche la sfilata di oltre un centinaio di poveri, per ricevere da lui un fagottino di riso, di farina o di zucchero.

Don Carlo si moltiplicava , per così dire: era  un uomo che non riposava mai! Infatti, mentre durante il giorno dirigeva  e finanziava le sue opere, di notte continuava  l’azione che aveva lasciato incompiuta.  E giorno e notte la gente bisognosa accorreva  a lui in code interminabili, ed egli metteva  la mano nella larga tasca della sua veste nera e il denaro si materializzava  come per incanto. Generazioni di persone si susseguirono nel tempo beneficiando del suo cuore generoso e tenero.
Prediligeva i poveri, ma il più povero era lui stesso: la sua umiltà si vedeva nella veste che portava, logora fino a sfilacciarsi, nelle scarpe rotte e nel pasto frugale, nella sua stanzetta angusta, quasi misera, arredata dal solo letto di  legno. Il suo riposo notturno era di cinque ore, e a volte meno, perché non c’era praticamente notte in cui non fosse chiamato per assistere e confessare moribondi. Ai colpi alla porta d’ingresso della sua povera casa, rispondeva immediatamente: “Vengo!”

NELLA LUCE E NELLA GIOIA DI DIO

Don Crespi non aspirò mai ai premi o alla popolarità, ma la sua personalità si imponeva e piovevano su di lui i più alti riconoscimenti per la sua opera in campo scientifico, artistico e culturale. Ogni onorificenza, però,  veniva da lui riferita, rapportata, per così dire, a ciò che più gli stava a cuore: i suoi poveri.
Così, “Eccellenza – rispose, quando il presidente della repubblica dell’Ecuador gli mise sul petto una medaglia d’oro  – il padre Crespi non cerca medaglie, ma pane, riso, zucchero, per i suoi bambini poveri”.
E ancora, quando venne insignito del titolo di Canonico onorario: “Che direbbero i miei ragazzi se mi vedessero con sottana e fascia paonazzi?”, e non entrò mai in esercizio di questa nomina.
E in altra occasione, per il conferimento dell’ennesima medaglia, esclamò, in mezzo a un enorme pubblico:”Le mie medaglie d’oro sono i miei ragazzi più poveri”.
Con il passare degli anni si diraderanno i suoi interessi scientifici e accademici, diventando sempre più preponderante la dedizione ai poveri e ai ragazzi abbandonati. Perché alla base del suo immenso lavoro e delle sue molteplici attività era la volontà di imitare Cristo nel suo amore preferenziale per i miseri, nel suo avvicinarsi ai piccoli, nella sua sollecitudine per i peccatori, dimenticando se stesso,  con una grande umiltà, riflessa nella semplicità dei suoi gesti.
La sua devozione per la Madonna fu centrale e permanente: forse la causa di canonizzazione, che è stata avviata nel 2006, farà scoprire la verità su due visioni che egli ebbe della Vergine, mentre celebrava la messa solenne in suo onore.
Così come sull’apparizione di Santa Teresina del Bambin Gesù, nel 1937, mentre era gravemente ammalato, tanto che i medici lo davano per spacciato. Ma la piccola santa di Lisieux gli avrebbe detto  che la sua malattia non era mortale, e lui subito si sentì guarito.
Il 30 aprile 1982 don Carlo Crespi giunse al termine della sua vita, lunga e laboriosa, amato e venerato dall’intera città di Cuenca come un patriarca biblico, un’icona di santità e di sapienza.
Chi l’ha conosciuto ancora lo ricorda nei suoi quotidiani e frenetici spostamenti tra il confessionale, affollatissimo ancora fino a poche settimane prima della sua morte, e l’altare, tra il santuario, dove trascorreva parte del suo tempo, immerso nella preghiera a Maria Ausiliatrice, e la scuola, il sorriso di bimbo che spuntava immancabile sulle labbra, pur seminascoste dal folto barbone candido, gli occhi vivacissimi che ballavano allegramente, le dita della mano destra che perennemente  sgranavano  un vecchio rosario.
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(*) La scorsa settimana i collaboratori della causa di beatificazione e di canonizzazione del Servo di Dio Carlo Crespi Croci (Legnano 1891 - Cuenca 1982), eroico missionario salesiano in Ecuador, hanno consegnato al Sottosegretario della Congregazione delle Cause dei Santi, mons. Marcello Bartolucci, la parte suppletiva degli Atti dell`Inchiesta diocesana, come era stato richiesto dalla medesima Congregazione con Lettera del 20 agosto 2008. Il lavoro che ora attende i medesimi Collaboratori è quello di preparare la cosiddetta "Positio", cioè il dossier che deve documentare al meglio l`eroicità della vita e delle virtù del Servo di Dio.

Responsabile ultimo della Positio è il Relatore nominato dalla Congregazione delle Cause dei Santi, il rev.mo Padre Cristoforo Bove, o.f.m. conv., al quale sono già state affidate numerose Cause della nostra Famiglia, come quella di Mamma Margherita, di Francesco Convertini, di Elia Comini, di Ottavio Ortiz, di Giuseppe Arribat e di Stefano Ferrando, e anche la Causa del Servo di Dio Albino Luciani (Giovanni Paolo I).



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